Viviamo in una società che cerca soluzione a tutto. Io scelgo il conflitto”. Jan Fabre a Napoli

di  Martina Mignano

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«Sono partito. Sono in treno. Prima passo dalla cultura e mi rinfresco alla fontana del geniale Bernini a Roma e poi proseguo alla volta della natura violenta e implacabile della Camorra a Napoli. Che bel paese! (Ovviamente il treno è partito in ritardo. Povero Mussolini! Provateci voi a fare il dittatore in un paese del genere)».E’ il 20 luglio 1984: Jan Fabre è in viaggio da un paesino delle Marche verso Napoli.

Il poliedrico artista, che a vent’anni disegnava col suo sangue per poi passare all’uso di scarabei e insetti, è tornato a Napoli, nelle corse settimane, all’Ex Asilo Filangieri, per presentare il suo libro “Giornale notturno (1978- 1984)”, edito dalla casa editrice napoletana Cronopio di Maurizio Zanardi (dal 30 ottobre in libreria).

Si sente a casa, Fabre quando entra nella sala della Balena, disinvolto, e con tanto affetto saluta tutti i suoi vecchi amici napoletani.

Non è solo a presentare, finalmente, la prima traduzione italiana dei suoi diari.
Con lui il curatore Franco Paris (Università L’Orientale), Barbara de Coninck (Troubleyn/Jan Fabre), Lorenzo Mango (Università L’Orientale) e Angelo Curti (Teatri Uniti). Tutti insieme nel piccolo auditorium di un luogo che, come dice Franco Paris, “Ricorda molto il teatro che Fabre ha fondato nel suo quartiere ad Anversa”.
Niente lingua inglese per l’artista, solo fiammingo. Una scelta consapevole che ne definisce il profondo legame con le origini e la sua lingua, nonostante l’ormai consolidata appartenenza allo scenario artistico internazionale.

Il suo “giornale” notturno è ricco di aneddoti partenopei, ma è di fatto il dipinto di un’epoca, da New York ad Amsterdam, da Venezia a Napoli, attraverso i molti ricordi e i racconti di esperienze vissute a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta.
E proprio nella lettura di alcune pagine dei diari si sono innestate una serie riflessioni sugli aspetti fondamentali della sua arte e del suo pensiero. Tre i principali argomenti trattati nel corso della conversazione: la ricerca del conflitto nel dualismo, la differenza fra performer degli anni Ottanta e i performer attuali, il rapporto di Fabre con la scienza.

Il performer per Fabre deve essere attore e danzatore, uomo e donna, angelo e diavolo, essere umano e animale: “Viviamo in una società che cerca di trovare una soluzione a tutto. Le mie opere scelgono sempre il conflitto come nel modello greco. Ecco perché questo concetto del conflitto nella dualità è sempre presente nella mia arte” commenta l’artista.
Ma il performer per Fabre dev’essere soprattutto un “guerriero della bellezza”, un tema attualizzato, naturalmente, attraverso il corpo, e a proposito dell’energia che dovrebbe sprigionare quest’ultimo.
Il 2 aprile del 1984 Jan Fabre scrive nel suo diario che “Il guerriero della bellezza deve possedere l’intensità e l’intimità di un vulcano. Una forza naturale non è ne gonfiata ne forzata”; il corpo deve essere disciplinato, e  la forza naturale del vulcano è un corpo che va disciplinato.

“Il sabato, quando pioveva, vedevo sempre film di Fred Aster, e mi chiedevo come mai i suoi movimenti fossero così naturali. Così ho cominciato ad informarmi leggendo libri e interviste, e ho scoperto che Fred compiva quei movimenti mille volte al giorno – ripercorre Fabre – Questo, insieme alle opere di Michel Foucault, mi hanno portato a pensare che il senso di acquisizione del corpo disciplinato è anche contemporaneamente un corpo politico. In un certo senso l’agilità dei movimenti di Fred Aster viene sottomessa, repressa, ma nel momento in cui l’agilità viene repressa e schiacciata scaturisce una resistenza a questa sottomissione”.

Negli anni Ottanta i performer avevano molta passione e molta costanza nell’affrontare la loro attività. A distanza di trent’anni è cambiato tutto. C’è meno passione, ma più consapevolezza e controllo: “Trent’anni fa io e gli altri sapevamo che dovevamo lavorare mesi senza vedere un soldo, prima di raggiungere il nostro obiettivo – racconta Fabre – Adesso i performer arrivano da scuole di teatro e arti performative, sono super preparati e non hanno più la necessita di sviluppare un percorso interiore e fisico come facevamo noi ai nostri tempi”.

Famoso per gli esperimenti che per trent’anni ha svolto sul proprio corpo e su quello dei suoi collaboratori, Fabre attualmente sta portando avanti un discorso che lui stesso chiama “Consiliez”. Egli ipotizza un’unione di saperi: quello scientifico e quello artistico, volti alla consapevolezza e alla conoscenza del corpo.

Due sono gli esperimenti che sta svolgendo. Nel primo, con un équipe dell’Università di Anversa, vengono applicati una serie di strumenti scientifici sul corpo dei suoi performer per vedere cosa succede quando si trovano in una situazione di eccessivo stress mentale e fisico. L’altro è un’operazione che sta svolgendo con uno scienziato italiano, Giacomo Rizzolatti, che ha studiato i neuroni a specchio, scoperti inizialmente nelle scimmie e che posseggono anche gli uomini. Questi regolano il comportamento empatico dell’uomo, ma non solo, sono anche quelli che fanno scattare qualcosa nel cervello quando vediamo una cosa in movimento.

“Dopo i metodi di Grotowski e Brook non c’è stata una vera e propria ricerca sul lavoro dell’attore, per questo da quattro anni sto portando avanti questo discorso. Perché ho deciso di scrivere un libro in cui studio le reazioni, i meccanismi e tutto quello che succede interiormente e fisicamente in un performer quando viene sottoposto ad un certo tipo di sollecitazione” conclude l’artista belga.

Non resta che attendere e intanto leggere il suo Giornale notturno.