Il 30 novembre 2015 sulla rivista Lo Straniero, fondata e diretta di Goffredo Fofi, Mirella Armiero, responsabile delle pagine culturali del “Corriere del Mezzogiorno”, ha pubblicato una lettera al prossimo Sindaco di Napoli, nella quale parla anche dell’Asilo.

Si può leggere qui e sul sito della rivista.

Caro prossimo sindaco di Napoli,
che tu sia un redivivo Bassolino o un de Magistris bis o un auspicato volto nuovo, di destra o di sinistra, inevitabilmente ti ritroverai, appena eletto o dopo poco, a dire che la città deve ricominciare dalla cultura, che dalla cultura nasce il riscatto e che punterai prima di tutto sulla cultura. Il copione è già scritto, l’abbiamo già sentito ma lo riascolteremo fiduciosi, con l’illusione di crederci ancora una volta, forse ci sarà perfino qualche orecchio vergine a fremere di autentico piacere, magari qualche giovane inesperto o qualche inguaribile ottimista. Poi passeremo alla pratica e alla verifica. Allora consentimi di ricordare qualcosa del nostro passato prossimo.

Gli ultimi quindici anni li ho trascorsi a mettere insieme una pagina culturale per un quotidiano locale. Ogni giorno, un’affannosa corsa a scovare nuovi talenti, a imbarcarsi in polemiche a volte legittime a volte pretestuose, ad accumulare migliaia di interpretazioni più o meno banali della città. Qualche volta abbiamo imbroccato la strada giusta, pubblicando un pezzo di valore, intuendo che qualcosa stava per accadere. Ma soprattutto, un giornale locale permette di mantenere il contatto con la realtà. Non ci sono distanze siderali, come spesso accade nei grandi quotidiani nazionali, a separare il giornalista dal suo oggetto di osservazione. Napoli è qui, noi ci viviamo dentro e la raccontiamo come possiamo, come sappiamo. La città, insomma, la conosciamo. Non so più quanti scrittori ho intervistato, quante mostre visitato, quanti spettacoli e quanti film visto, a quanti autori stranieri ho sentito dire: che bella questa città del caos creativo, dell’energia irrefrenabile. Perché la croce e delizia di un’edizione locale è che Napoli resta sempre al centro del tuo orizzonte.

Il giornale per cui lavoro ha aperto i battenti con belle speranze in piena epoca bassoliniana, diciotto anni fa. Non voglio qui ripercorrerne la storia, ma è stato un osservatorio privilegiato, da cui sono passati in tanti, da Raffaele La Capria a Roberto Saviano, per rimanere in ambito culturale, che è quello che mi interessa. Ma soprattutto credo che in questi diciotto anni la città sia profondamente cambiata e noi l’abbiamo potuto constatare giorno dopo giorno. E se quello che fu definito “rinascimento”, una chimera degli anni novanta, poi si è rivelato un’illusione, l’effervescenza che c’è oggi è cosa ben diversa. È un movimento che viene dal basso, più consapevole, meno autoreferenziale, che salta a piè pari una certa nouvelle vague di sinistra, snob e salottiera, e si salda invece con la tradizione, rinnovandola in profondità. Caro il mio futuro sindaco, la città che governerai non è affatto morta come spesso dichiarano i giornali con copertine a effetto. È molto più viva oggi che ai tempi del cosiddetto rinascimento che peraltro fu attivato, almeno in parte, da un flusso considerevole di denaro pubblico. Le installazioni in piazza Plebiscito, dalla Montagna di sale in poi, erano belle, chi lo nega. Ma presupponevano un atteggiamento pedagogico e paternalista: ecco, cari napoletani, ora vi facciamo vedere che cos’è l’arte contemporanea, spendendo fiumi di soldi pubblici. Voi vi fate una passeggiata intorno all’Italia di Pistoletto o entrate nella struttura di Serra per fare una foto (non eravamo ancora in epoca di selfie) e ve ne tornate a casa. Poco importa che l’artista qui non lasci nulla e che tutta l’operazione sia effimera, come effimera era la collezione del Museo Madre, svaporata via con la fine della direzione Cicelyn (erano quasi tutti prestiti, poi richiesti indietro; e meno male che il nuovo direttore Viliani sta ricostruendo tutto dalla base, stavolta ben più solida).

E poi la piazza stessa, il Plebiscito svuotato dalle auto. Dopo vent’anni bisogna ammettere che quel luogo non ha trovato una sua funzionalità, è difficile percorrerlo e i localini che dovevano contornarlo non sono decollati o meglio non sono mai nati. Funziona molto meglio via Caracciolo pedonale, anche se la demagogica definizione di Lungomare liberato fa storcere il naso a molti. Almeno i napoletani quella strada hanno imparato a godersela, la invadono a frotte in ogni domenica di sole e se in tanti se ne dolgono – troppa folla, troppi ambulanti, troppa sciatteria – a molti altri invece piace, a cominciare dai turisti. Un dispositivo indovinato, con un’immagine che ha fatto il giro del mondo.

Non è certo per de Magistris, comunque, che la Napoli creativa sta bene in salute. Se il sindaco arancione ha un merito è forse giusto quello di non aver bloccato certe iniziative di valore provenienti da gruppi di cittadini che si auto-organizzano, a partire dalla comunità dell’ex Asilo Filangieri. Un’esperienza assolutamente innovativa, che oltrepassa i confini asfittici della semplice occupazione in stile Teatro Valle e arriva alla rielaborazione di forme giuridiche dell’uso di spazi pubblici per darsi uno statuto legittimo e funzionale. Oggi la cultura più sperimentale e più avanzata a Napoli passa per l’Asilo Filangieri. Ospiti internazionali, produzioni, stage, laboratori, scambi con l’estero, tutto nell’ambito di una gestione comunitaria e contemporanea. Ecco, caro sindaco, è uno dei luoghi di produzione culturale, legato a nuove pratiche politiche, di cui tener conto. E dire che la bella struttura di San Gregorio Armeno doveva essere la sede del mai abbastanza esecrato Forum delle culture, un flop di dimensioni ciclopiche, con più di dieci milioni spesi per non lasciare traccia alcuna dell’evento e della sua logica (che non c’era). Insomma, Napoli è viva, ma non per merito della politica. Ha trovato da sé, nel suo dna stratificato, nella sua storia, la forza per essere ancora un centro culturale che non è possibile ignorare in Italia.

Spesso chi trova le soluzioni più originali e vincenti è qualcuno che è andato via, ma solo per poi poter tornare. Per esempio Mimmo Borrelli, regista e drammaturgo che porta in superficie le forze ctonie della cultura di Napoli. Uno che, con strumenti assolutamente moderni, scava nel passato e trasforma con l’onda d’urto della sua lingua antica, bacolese e napoletano insieme, le matrici, gli elementi culturali della napoletanità per trarne spettacoli ipercontemporanei. Borrelli si è anche inventato un festival autoprodotto, in luoghi improbabili, cantieri navali e giardini inesplorati dei Campi Flegrei, con rappresentazioni perfino all’alba. E tutto questo ha funzionato, perché non si tratta solo di apparenza ma di sostanza. E allora? A Napoli ci sono sempre stati tante forze vive, si può obiettare, tanti splendidi indimenticabili artisti. Vero. Ma oggi a molti livelli c’è una maggiore maturità, una inedita capacità di fare rete e di dialogare con l’estero, di porsi in uno scenario internazionale. Per esempio la letteratura. Di rado tanti scrittori napoletani sono stati allo stesso tempo nelle classifiche nazionali, e poi tradotti all’estero e tradotti anche sullo schermo. A Napoli continua a non esserci una grande casa editrice ma ci sono un paio di esperimenti interessanti, piccole imprese che sanno scegliere. E poi L’amica geniale della fantomatica Elena Ferrante ha portato, dopo Gomorra di Saviano, l’immagine di Napoli contemporanea in tutto il mondo: una città forte, onnivora, fagocitante ma anche letterariamente indimenticabile.

Certo, non tutto è oro. Distinguere, individuare i nuclei più nuovi della cultura a Napoli non è facile. Ma c’è chi può contare su una notevole lucidità nello sguardo. Prendiamo “Napolimonitor”, il giornale on line di approfondimento e reportage, un vero occhio critico sulla città, da una prospettiva di sinistra se così si può dire, perché in questo caso siamo assai lontani sia dalla piattezza del Pd campano sia dal rampantismo di quello nazionale. Nonché dalla confusa e presunta azione di rottura della giunta arancione. Di recente Luca Rossomando su “Napolimonitor” ha recensito il libro di Antonio Pascale, Non scendete giù a Napoli, una ironica controguida della città. Rossomando spiega bene come quelle di Pascale siano armi per lo più spuntate, di chi da posizioni radicali si è spostato verso lo scetticismo liberal. Proprio come Adolfo Scotto di Luzio nella sua Napoli dai molti tradimenti di qualche anno fa. Entrambi, Pascale e di Luzio, secondo Rossomando utilizzano con toni convincenti e divertiti il loro sarcasmo per smontare la sinistra arrabbiata e intellettuale che non ha saputo incontrare il “popolo” e che ha elaborato falsi miti, vere e proprie fissazioni, dal Mediterraneo al rap dialettale, per poi concludere gattopardescamente che nulla cambia e cambierà mai. Rossomando smentisce che tutto sia immobile e dà una lettura molto aggiornata di Napoli: settori non trascurabili della classe media, scrive, da tempo si sono posti il problema di come mettere in comunicazione i diversi mondi, contigui ma distanti, che formano la città. Non assomigliano per nulla agli intellettuali di sinistra di cui parlano Pascale e Scotto di Luzio, ma lavorano in associazioni o anche in proprio, sia nel sociale sia a livello di produzione intellettuale, compiendo un vero e proprio passo in avanti rispetto al piagnisteo o all’autoreferenzialità che spesso ci hanno afflitto.

Il punto è che oggi ci sono strumenti diversi e più agili, alla portata di tutti. Chi ha un talento nella satira può farsi conoscere in tutta Italia e anche oltre con una telecamera e una connessione web. Così hanno iniziato i Jackal, ragazzi di Melito premiati da milioni di click. Il loro segreto? Smontare e giocare con gli stereotipi della napoletanità, come del resto hanno fatto già in passato gli autori più innovativi dei propri tempi, da Petito a Troisi. Così accade che i Jackal riescano con leggerezza a rendere epica e solenne la battaglia quotidiana tra l’automobilista e il parcheggiatore abusivo o mettano in piedi un tormentone metatelevisivo, trasformando in ridicole icone i personaggi della fortunata fiction “Gomorra. La serie”. Oppure rivitalizzano il topos napoletano del balcone, mettendo in scena surreali dialoghi tra “vrenzole”. Sempre con pochi mezzi ma grandi idee lavora il gruppo di Med Entarteinment, che ha firmato il film di animazione L’arte della felicità, vincitore degli Oscar europei. Un piccolo gioiello cinematografico dove Napoli è uno scenario cupo, piovoso, insolito, visionario ma anche uno spazio dove rintracciare percorsi esistenziali perduti.

Insomma, Napoli è viva, lo ripeto. Lo era ieri, lo è oggi. A rappresentarla ora ci sono Sorrentino e Servillo, Capuano firma ancora grandi film come Bagnoli jungle e Mimmo Jodice continua a fotografare con passione i suoi paesaggi metafisici, rendendo arte perfino le macerie della Città della Scienza incendiata due anni fa. Ancora, ci sono ottimi registi teatrali, da Francesco Saponaro ad Antonio Latella. E attori, musicisti, artisti. Se guardiamo indietro, agli anni Ottanta, rintracciamo i germi di alcune avventure artistiche che durano ancora oggi. La città del post terremoto era colpita, affranta eppure pervasa da fermenti culturali tutti tesi al rinnovamento, come spesso accade nei periodi più critici. Da Napoli si guardava in direzione di un altrove più nuovo, più moderno. Sono gli anni in cui nasce Falso Movimento di Mario Martone, anni in cui si afferma una teatralità che accoglie le istanze della drammaturgia europea più avanzata e le rielabora in forma originale. Sono gli anni in cui il gallerista Lucio Amelio invita a Napoli il gotha dell’arte internazionale, da Beuys a Warhol, da Rauschenberg a Schnabel, e riunisce molti di questi artisti nella collezione Terrae Motus, nata proprio intorno all’evento catastrofico del sisma e oggi esposta alla Reggia di Caserta perché Amelio stesso decise che Napoli non la meritava. Se c’è una differenza tra quegli anni e il presente è nella voglia di fuga che si è trasformata in una più disinvolta abitudine ad andare via, incamerare esperienze e poi tornare sotto il Vesuvio. E nella capacità, che hanno le nuove generazioni di artisti nati a Napoli, di non sentirsi esclusi dal flusso della modernità.

Allora è questo il punto: Napoli fa centro con la cultura. Per questo tu, caro futuro sindaco, la vorrai cavalcare come cavallo di battaglia, perché parlare di cultura va sempre bene. Soprattutto qui. Ma attento. Molto è cambiato, lo ripeto. Negli ultimi venti anni la cultura si è separata sempre di più dalla politica. Ha trovato o cerca le proprie strade in modo autonomo. Le associazioni si autofinanziano, molte manifestazioni pure. Nessun regista immagina di poter firmare un film come I Vesuviani, discusso manifesto bassoliniano in cui il sindaco sale sul Vesuvio andando eroicamente contro un vento impetuoso e ostile. La politica ha fallito. Ha accumulato disastri, non ha modernizzato la città, non l’ha condotta verso la sbandierata “normalità”; le vecchie generazioni non hanno creato successori e oggi è il deserto, a destra e a sinistra. Quindi, per favore, non venite a parlarci di cultura. Caro sindaco, cerca di amministrare. Ascolta i cittadini, apri le antenne sulla città perché c’è molto da captare. Alla cultura Napoli ci pensa da sola.