mercoledì 12|12|12 e sabato 15|12|12
ore 19

MILANO, QUATTRO SECONDI

di Patrizio Esposito

raccolta di immagini e testi sulla strage di Stato di piazza Fontana del 12 dicembre 1969
e sulla spinta nel vuoto del corpo di Giuseppe Pinelli, avvenuta tre giorni dopo.

Letture da Dieci tesi sulla politica di Jacques Rancière

«La memoria dovrebbe avere ben altro, e altrimenti, da capire senza pietà e da fare»
Franco Fortini, lettera a Licia Pinelli

datario 2012

Il 12 dicembre del 1969 una bomba ad alto potenziale e di chiara matrice neofascista esplode nella Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano provocando 17 morti e 84 feriti.

il 15 dicembre del 1969 Giuseppe Pinelli precipita dal quarto piano della questura di Milano pochi minuti dopo la mezzanotte. Ferroviere di quarantun anni, storico dirigente del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, era stato fermato dal commissario Luigi Calabresi la sera del 12 dicembre, qualche ora dopo la strage di piazza Fontana, e trattenuto illegalmente.

Quattro secondi è il tempo di caduta al suolo di Giuseppe Pinelli dalla finestra-balcone del commissario Calabresi.

In Milano, quattro secondi, dedicato a Pinelli e al crinale storico che porta il suo nome, una molteplicità di luoghi e di strumenti – dal digitale al manufatto, dai quaderni di «alfabeto urbano» a pezzi unici in consegna a testimoni esemplari – cospira per una scena essenziale, scarna e antiretorica, e però popolata da una eco collettiva, che si riattiva per un contrappunto di piani opposti e dialettici, necessari ed elementari: luce/ombra, alto/basso, pieno/vuoto. Il luogo è un luogo (cantiere o magazzino), non un monumento; una data è una soglia (12.12.12) e i numeri incisi non una lapide ma segnali per chi s’addentrerà nel bosco, nel tunnel o nel deserto.

Sul graticcio e nel sottopalco di un teatro. Sui tetti del Leoncavallo, tra le impalcature di un cantiere. Milano, nelle sale dell’Ex Asilo Filangieri Milano, quattro secondi si ripete senza la preoccupazione di ripetersi. Il lavoro è fatto da quello che c’è e dall’inaspettato, assecondando le tracce dei luoghi in cui si mostra, individuando e amplificando le tensioni con gesti minimi ed essenziali.

Quell’attimo che si dilata stabilisce l’apertura e insieme il limite provvisorio di un lavoro in continua evoluzione, che recupera il principio brechtiano dello straniamento ma non lo immette nella cornice di una rappresentazione: il precipitare di una esistenza (quattro secondi) non è rappresentabile, né deve esserlo (nemmeno quel breve, minuscolo sciame di braci di sigaretta, giù dalla finestra); piuttosto sollecita la dimensione individuale, agita il piano dell’esperienza, ne fa vacillare le fondamenta.

Davanti al lavoro di Patrizio Esposito, da Monitor Iraq a Necessità dei volti, viene da chiedersi se non vi sia, in esso, un rapporto di solidarietà con l’idea di Didi-Huberman di «far apparire scintille di umanità» proprio dagli esseri in fuga, prede disperate ma ancora con «l’ostinazione di un progetto, il carattere indistruttibile di un desiderio.» Se l’analogia è legittima, come crediamo, è perché il lavoro di Esposito non solo sa esprimersi, anch’esso, in intermittenze, in bagliori d’esilio e speranze clandestine, ma in quanto si realizza attraverso una sperimentazione prolungata, multiforme, un artigianato fatto di materia e di tempo che al consumo e alla dimenticanza, all’offesa del falso vero si oppone altrettanto caparbiamente.

Quattro secondi deve vivere attraverso atti collettivi, come alterare l’illuminazione di una piazza, di un viale, in modo che quel disturbo dica quanto risuona oggi il nome di Pinelli…

All’Ex Asilo Filangieri i concerti, gli spettacoli, le proiezioni, gli incontri sono ad ingresso libero. E’ gradito un contributo a piacere che serve ad abbattere delle spese minime e a dotare gli spazi dell’Ex Asilo Filangieri dei mezzi di produzione necessari ai lavoratori dello spettacolo e dell’immateriale per produrre arte e cultura.

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MATERIALI

Fuori in quattro secondi, un salto oltre lo stato. Intervista a Patrizio Esposito da ALIAS dell’8 dicembre 2012 [scarica il PDF]

Sul graticcio e nel sottopalco di un teatro. Sui tetti del Leoncavallo, tra le impalcature di un cantiere. Milano, quattro secondi si ripete senza la preoccupazione di ripetersi. Il lavoro è fatto da quello che c’è e dall’inaspettato, assecondando le tracce dei luoghi in cui si mostra, individuando e amplificando le tensioni con gesti minimi ed essenziali. Quattro secondi è il nome che Patrizio Esposito ha scelto per la sua raccolta di immagini e testi sulla strage di Stato di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e sulla spinta nel vuoto del corpo di Giuseppe Pinelli, avvenuta tre giorni dopo. Alcuni documenti di questa raccolta sono stati mostrati in spazi pubblici a Milano nel 2009. O in spazi privati, com’è accaduto a Napoli, nell’ottobre del 2010 e come accadrà ora in varie città.

La morte di Pinelli tocca ancora i nostri giorni. Cosa brucia di quel passato oggi? Come ha toccato i tuoi giorni, nel 1969 e adesso?

Il lavoro sul 12 e il 15 dicembre 1969 è cominciato nei giorni successivi la strage in piazza Fontana e la spinta mortale a Pinelli. Costruivo degli oggetti e delle azioni: mettevo fogli di carta in recipienti colmi d’acqua e scrivevo con una penna a sfera fino a che l’inchiostro sbiadiva, rendendo vano il procedere della mano. Scrivere nell’acqua o  nell’olio, divenne un gesto ciclico, ripetuto fino a oggi. Così trasformavo scarpe di cuoio comprate ai mercati: staccavo i tacchi dalla parte posteriore delle suole e li inchiodavo sul davanti, poi passavo una vernice bianca. L’impiego delle scarpe, iniziato in rapporto a Pinelli, è proseguito anche in altre direzioni, le istituzioni totali e le migrazioni, ad esempio, ma ha conservato il suo carattere originario, nascosto e discontinuo. Quattro secondi, invece, è nato dalla proposta di Silvio Castiglioni, nel maggio 2009, di mostrare immagini negli spazi del Crt di Milano. Durante i sopralluoghi, il sottopalco e il graticcio del Teatro dell’Arte svelarono una somiglianza architettonica, oltre che di dimensioni, con la Banca dell’Agricoltura e la questura milanese: le pareti curve del palcoscenico, i materiali di costruzione, le altezze, il buio improvviso di alcuni ambienti. Chiesi di poter lavorare nelle aree chiuse al pubblico, rilessi La strage di Stato e altri libri, conobbi Piero Scaramucci e Mauro De Cortes, ritrovai i ritagli fotografici che avevo conservato di piazza Fontana, rividi il film 12 dicembre di Pasolini e Lotta Continua. Quattro secondi, il tempo di caduta al suolo di Pinelli dalla finestra-balcone del commissario Calabresi, divenne l’intermittenza sonora o visiva, il disturbo, di ogni immagine o oggetto preparato per il Crt e per gli studi successivi.

Mi sembra che questa tua idea di intermittenza abbia anche una singolare consonanza con il ricordo di Elda Necchi: «Il 12 dicembre del 1969, alle 16.37, le luci dei lampioni di Milano ebbero un tremito e si abbassarono, per alcuni istanti fu quasi notte. Un cielo grigio e pesante di nebbia continuò a opprimere Milano fino al giorno 15. Una sorta di angoscia anticipatrice che stringeva le gole».* Ma cos’altro hai indagato, dove hai posto il tuo sguardo e da cosa, soprattutto, lo hai distolto?

Ho guardato a lungo l’edificio della banca in piazza Fontana, ma non ci sono mai entrato. Ho fotografato periodicamente i rami degli alberi del giardino antistante e registrato il rumore dei tram e dei cortei. Per anni. Così ho guardato l’esterno della questura e non ho mai messo piede al suo interno. Forse bisogna evitare di conoscere a fondo le cose su cui proviamo a lavorare, impedendo a noi stessi di avere un traguardo. Quando ho conosciuto Piero Scaramucci ho pensato che Licia Pinelli avrebbe dovuto sapere cosa facevo e, in qualche modo,  approvare. Ma non l’ho mai incontrata e oggi questa mancanza mi aiuta: lei, la sua tenacia e la sua verità sono l’ombra materna con cui parlare.

Su invito del Ponte della Ghisolfa, l’azione ha avuto un suo prosieguo.

La notte del 15 dicembre 2009 ho lavorato sui tetti del Leoncavallo e nel grande ambiente vuoto che si apre sul suo giardino interno. Dal perimetro dei terrazzi ci si sporge sugli snodi ferroviari che incrociano la periferia nord di Milano. È la zona di passaggio dei treni merci notturni, dai colori cupi e con vagoni senza finestrini. Sulla loro superficie, in movimento, ho proiettato dei brevi filmati, mentre negli ambienti sottostanti si teneva il convegno sui 40 anni dalla strage di Stato. L’intermittenza dei quattro secondi era data, stavolta, dal procedere lento dei vagoni e dallo spazio vuoto tra loro. Contemporaneamente, ho amplificato il rumore della loro marcia con dei radiomicrofoni, avvicinandolo ai tetti. Ho utilizzato, come superficie su cui proiettare i filmati, anche il vapore che saliva dalla mensa del Leoncavallo. Una superficie instabile, sufficientemente opaca per trattenere le immagini.

A Napoli hai lavorato in una grande casa del centro antico, dichiarata inagibile per il rischio di cedimento delle travature in legno dei suoi soffitti. Una minaccia incombente diventa l’incipit per una nuova fase del lavoro. L’atto del guardare non è mai senza rischio.

In quelle stanze ho trovato una condizione particolare per sistemare oggetti e immagini, favorito dalle complesse impalcature allestite dalla ditta incaricata di mettere in sicurezza l’abitazione. Come hai visto, ho lasciato intravedere la minaccia del crollo attraverso una feritoia, tra controsoffitto e tetto, che permetteva la proiezione, sul pavimento, dell’immagine delle travi incrinate. Gli ospiti erano invitati a fine giornata, quando il cantiere era abbandonato dagli operai e potevo aprire la casa. Tutto il lavoro, per la durata di tre settimane, si è svolto all’insaputa delle maestranze e si è modificato quotidianamente perché seguiva il progresso dell’attività cantieristica. L’appartamento corrispondeva grossomodo a una descrizione di Pasquale Valitutti, l’anarchico fermato con Pinelli e ultimo tra i suoi compagni a vederlo vivo: «La porta della stanza dove mi trovavo era a vetri e dava sul corridoio (…) L’ufficio della “squadra politica” era come un appartamento: una porta d’ingresso, un corridoio lungo con tante stanze». La similitudine tra gli ambienti è spesso un riferimento provvisorio, dà un orientamento iniziale al lavoro e poi lo tradisce. Una variazione dell’intervento a Napoli l’ho preparata in precedenza nel sottosuolo dell’edificio, ma non ha avuto forma pubblica. Tuttora, con l’assenso del proprietario, ho degli oggetti custoditi negli ambienti sotterranei. Restano in attesa di essere adoperati.

Difendi senza clamore la tua estraneità ai luoghi e al mondo dell’arte, scegliendo altre modalità, altre procedure, direbbe Claudio Morganti. Ti ho ascoltato di recente in un incontro pubblico parlare del lavoro come di un cammino, i cui passi qualche volta «diventano opachi e quindi visibili», ma non è detto che ci sia sempre qualcuno che li veda.** «Quattro secondi» è un tratto di quella opacità, forse.

Non conservo i manufatti e non fotografo durante le azioni. Oggi, a distanza di anni dai primi gesti, ho poco da mostrare e non ne sono preoccupato. Chi ha visto le azioni, o i luoghi dove si sono svolte, ricorda ma insieme rielabora e modifica quanto ha osservato. Questo movimento della memoria regge il lavoro più che indebolirlo, lo asseconda o lo contraddice: il ricordo non deve corrispondere con l’accaduto e, soprattutto, con quanto ho pensato in solitudine. Ciò rende il ricordo duraturo ma incontrollabile, quindi vitale. L’accaduto, e la sua traccia incerta, non trovano conferma nemmeno nelle azioni successive, destinate egualmente a scomparire. Credo che le azioni debbano rivendicare una propria ambiguità: non si deve poter distinguere in esse l’autore dall’interprete, non si deve poter individuare il confine tra i segni del luogo agito così come era e quelli del luogo così come è stato cambiato. Si può agire avendo cura di quanto ci è già intorno e intervenire dove, senza la nostra presenza, gli oggetti si sono già disposti da soli. Da settembre, uno dei lampioni pubblici che illumina la strada dove abito è guasto. A intervalli regolari si spegne, lampeggia debolmente e si riaccende. Posso vederlo dal mio terrazzo a una distanza di 30 metri. Allora ho rimosso parte del parapetto di casa e iniziato a costruire una parete di ferro che lascia libera un’apertura ampia quanto la ringhiera di 97 cm (92, nella sentenza D’Ambrosio) della finestra-balcone di Calabresi. In quel vuoto si accende l’intermittenza casuale della lampada. Il lavoro terminerà, come in altre occasioni, quando la luce sarà riparata. Che abbia avuto o meno dei testimoni.

Mi pare che il tuo lavoro abbia una sua necessaria incompiutezza che lo rende frammento di un’azione che potrebbe estendersi all’infinito. Cosa è per te opera?

Opera è il gesto che divide la realtà tra un prima e un dopo. Che taglia il presente interrompendo la serie e cercando l’unico, o solo l’inizio di una nuova serie. Non a partire da sé ma dal processo che l’ha individuata. L’opera usa il ferro e la parola e si muove costantemente tra l’identico e il difforme. Che non si abbia paura dell’identico, che si vari, durante tutta la vita, solo di poco la sua forma e la sua ragione originaria. E che l’unico sia tenuto nell’ordinario più che nell’esclusivo. Quando è fatta l’opera? Quando è pronta, cioè? Dell’utensile si dice che è fatto quando incontra la mano che lo usa, solo quando si «umanizza». L’opera non si fa al solo tocco dell’uomo ma a quello dell’unità dei viventi: l’uomo-l’animale-l’erba messi insieme al centro del mondo, come si augurava Anna Maria Ortese.

Hai immaginato in che modo «Quattro secondi» possa estendersi?

Dopo i Datari, che si vedranno pubblicamente a Siena, Topolò, Palermo, Napoli… continuerò a lavorare in spazi chiusi. Eppure credo che Quattro secondi debba vivere ulteriormente attraverso atti collettivi, come far lampeggiare a intervalli regolari i fari di molte auto riunite in luoghi speciali, o alterare l’illuminazione stradale, di una piazza, di un viale, di un edificio, in modo che quel disturbo cadenzato dica quanto risuona oggi il nome di Pinelli: «Fuori dai libri di storia», come ci ricorda Lenzini. Penso a musicisti che a un concerto o in sala d’incisione, inseriscono, per il tempo che reputano necessario, un rumore nei loro brani. O che un tecnico interno alla Rai crei, in segreto, un disturbo sonoro mentre è in onda un programma radiofonico o televisivo. Al di là di Quattro secondi, immagino che ognuno, nelle proprie giornate, sposti un attrezzo in direzione contraria al suo utilizzo. Che metta in disordine le proprie parole, che disubbidisca a se stesso prima che all’autorità più vicina. Che si renda improduttivo, cioè non funzionale a questo equilibrio del mondo.

* Elda Necchi, da «Una storia quasi soltanto mia, Licia Pinelli, Piero Scaramucci», Feltrinelli, 2009
** Forza e forma, Claudio Morganti, Maurizio Zanardi, Patrizio Esposito, ex Asilo Filangieri, Napoli,

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