Per una nuova mappa dei beni comuni in autogoverno.
Uno, sette, otto, centomila!

21 luglio 2016 – comunicato congiunto

Villa Medusa e l’ex Lido Pola a Bagnoli, l’ex Opg (ex Monastero S. Eframo nuovo) e il Giardino Liberato (ex Convento delle Teresiane) a Materdei, l’ex Conservatorio di Santa Fede (Liberata) e lo Scugnizzo Liberato (excarcere Filangieri ex Convento delle Cappuccinelle) al centro storico insieme alla ex Schipa a via Salvator Rosa, non sono assegnati con la delibera n. 446/2016, ma riconosciuti come «spazi che per loro stessa vocazione (collocazione territoriale, storia, caratteristiche fisiche) sono divenuti di uso civico e collettivo, per il loro valore di beni comuni».

A partire dalla storica e diffusa mancanza di spazi disponibili alla socialità e di luoghi politici collettivi ed a fronte dei numerosissimi beni disponibili giacenti in stato di abbandono, degrado e sottoutilizzazione, si è riconosciuto nella nostra città che le pratiche di conflitto sociale volte alla riappropriazione diretta e pubblica di questi spazi che oggi chiamiamo “liberati”, stanno sperimentando modelli che sono il contrario dell’appropriazione individuale, privatistica e predatoria.

Questa delibera riconosce che la necessità di beni comuni è già praticata dalle comunità di abitanti che hanno generato esperienze di socialità nuova e di autorecupero negli spazi altrimenti abbandonati all’incuria ultradecennale e privi di progettualità aperte ai bisogni degli abitanti.
Pertanto il momento genetico della loro occupazione/liberazione non rappresenta il tentativo di singoli collettivi di trovare la sede per la propria, in altri contesti legittima, socialità o identità politica.

Questi spazi sono stati riaperti alla vita quotidiana per restituirli alla città e per proteggerli dal pericolo della svendita. È d’altronde tale la nostra idea di beni comuni, che questa e altre delibere precedenti riconoscono “in senso eventuale”, in quanto beni che non solo esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali, ma sono comuni in quanto amministrati in forma diretta da collettività/comunità di riferimento emergenti, in assenza di lucro privatistico ed al fine esclusivo di indirizzarli al soddisfacimento di tali diritti. L’uso civico e collettivo urbano, originato con la sperimentazione dell’Asilo Filangieri, non è uso esclusivo, è altro dalla proprietà e dagli affidamenti a soggetti. Non si nutre una contrarietà ideologica al sistema delle concessioni, ma per definire un bene comune c’è bisogno di una gestione partecipata, originale e collettiva, in relazione con le realtà degli specifici luoghi, poiché pensiamo che dietro il sistema degli affidamenti, si può nascondere uno strumento clientelare per gestire privatisticamente i beni della collettività.

Ma la nostra critica a questo modello va oltre la sua degenerazione patologica. C’è il rischio, per noi oggettivo, che dietro il fiorire di “patti di collaborazione tra cittadini e istituzioni” si nasconda un’idea della partecipazione bonificata dal conflitto, in cui i cittadini sono presi in considerazione come partner solo in quanto ordinati “carpentieri” e “giardinieri”. Non siamo sussidiari alle défaillance del sistema, in una città come Napoli, con beni monumentali che hanno bisogno di impegni economici ingenti per una seria cura e restauro, non vogliamo che beni monumentali diventino vetrine di sponsorizzazioni a fini commerciali o abbiano costi di manutenzione talmente alti da poter essere assunti solo da parte del privato sociale più ricco, quello che spesso, come ci insegna il triste caso di Mafia capitale, non vuole far altro che lucrare sui bisogni dei disperati. Un discorso che in un comune, come Napoli in pre dissesto ha già cominciato a seminare danni. Dietro le indagini della Corte dei conti, che oramai ricopre un ruolo che esorbita le sue competenze tradizionali, non c’è solo in malaffare dell’affittopoli che in tempi non sospetti già denunciammo; dietro la leggerezza della neutralità tecnica, vengono colpite anche esperienze dall’alto valore sociale come il DAMM e il Gridas, schiacciate dai costi di gestione impossibili da sostenere, per il semplice fatto che si equiparano spazi di socialità collettiva, ispirati all’uso popolare e gratuito, con le regole di gestione di spazi commerciali. Questo è un assurdo non più sostenibile.

Nessun regalo, dunque, innanzitutto perché non riconosciamo in nessun amministratore il proprietario di questi beni ma soggetti che ne hanno una responsabilità pro tempore. E per questo anche le/gli abitanti di questi beni comuni non si sentono, né ora né mai, i loro proprietari. Noi partecipiamo attivamente alla loro gestione e sperimentiamo altri modelli culturali, politici, economici e relazionali.

Abbiamo spostato il piano del confronto anche con questa giunta, uscendo fuori dai classici schemi, mettendo in discussione le formule amministrative consuete. In particolare quelli che hanno seguito direttamente il percorso riguardate i beni comuni, sindaco e assessori, hanno recepito l’autonomia concettuale, teorica e pratica insieme, delle sperimentazioni in atto ed è stato questo quello che ha reso possibile questa delibera. Consapevoli che questo processo ha coinvolto anche alcuni funzionari che hanno avuto la capacità e la coerenza di tradurre le pratiche in atti amministrativi, mostrando così che le lotte ed i processi di autorganizzazione possono mettere in crisi e spostare in avanti la linea del diritto.
Lo faremo continuando anche la nostra partecipazione ad incontri tecnici, il cui proseguo ci auspichiamo sarà efficace sul piano amministrativo in un tavolo permanente, che estenda oltre gli immobili il discorso che stiamo generando sul neomunicipalismo.

Se è vero che l’uso di questi spazi è una conquista che ci siamo presi e continueremo ad agire con il lavoro quotidiano, siamo altresì consapevoli che questa delibera non è un percorso compiuto. A partire dalle pratiche, diverse anche in funzione dei soggetti e delle destinazioni d’uso, scriveremo le dichiarazioni d’uso civico e altri spazi si aggiungeranno come la Casa delle Donne che è già nel percorso del movimento, nelle sue forme autonome. Ad oggi sono 8 infatti i soggetti collettivi che hanno presentato un proprio “dossier”, per narrare la propria storia “abitativa” e le pratiche collettive messe in atto con la fermezza di impedire usi esclusivi degli spazi, garantita dai principi di imparzialità, inclusività, fruibilità e accessibilità.

La vittoria politica più grande è infatti il riconoscimento che in questi luoghi c’è un patrimonio di attività svolte da anni, presentate e articolate sotto forma del dossier, in cui il valore sociale della cooperazione rende anche la gestione economica completamente reindirizzata al recupero dei beni, al conferimento di mezzi di produzione, a migliorie e ad un’offerta sociale e culturale completamente al di fuori dalle logiche di mercato.

Il riconoscimento della delibera 446 è innanzitutto un riconoscimento a questa mole impressionante di attività donate senza alcun tornaconto, interesse, scambio di nessun tipo a tutta la cittadinanza e anche a chi dalla cittadinanza è escluso. Questa delibera, in una delle parti più importanti, afferma che il riconoscimento avvenuto «non riveste il carattere della esaustività, si inquadra ex adverso in un processo di costante ascolto attivo e monitoraggio del territorio e delle sue istanze in rilevazione delle istanze sociali capaci di creare capitale sociale e relazionale in termini di usi collettivi con valore di beni comuni.»

Ci impegneremo affinché molte altre sperimentazioni per i beni comuni possano arricchire la mappa della vivibilità nella nostra città, dando leggibilità, contenuti e forme urbane alle esperienze e le conoscenze originali, molteplici e differenti degli abitanti che popolano la nostra città.

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La nostra l’intervista a Radio Onda D’Urto | ascolta


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