Grazie ad Alessandro Toppi, critico teatrale de Il Pickwick, che, all’indomani dell’approvazione del regolamento di uso civico, ha scritto questa bella riflessione sull’Asilo e sulla necessità di interrogarsi su come fare cultura a Napoli, come attuare politiche culturali durature, come portare avanti progettualità basate sulla permanenza e sulla continuità, come valorizzare le mille esperienze artistiche che, nonostante la carenza di fondi e di spazi, resistono giorno dopo giorno.

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Il riconoscimento dell’Asilo come “luogo di cultura” di questa città, da parte del sindaco, è davvero una bella notizia: una di quelle di cui si può soltanto godere. Era dal 2012, se non sbaglio, che si discuteva della delibera senza riuscire a tramutarla in un atto amministrativo concreto.
L’impresa – perché di impresa si tratta (intellettuale, politica, amministrativa e di gestione, in termini di pensiero e di pratica quotidiana) – è straordinaria: dei cittadini hanno ridato vita ad un luogo che era stata resa una carcassa vuota e che – usufruendo della copertura di una finta ed episodica programmazione culturale – serviva soltanto alle speculazioni partitiche e all’affarismo da totonomine, aggravate talora da interessi personalistici o familiari, tramutandolo nei fatti in “uno spazio gestito dalla cittadinanza per la cittadinanza”.
Di più: costituisce adesso un precedente che rafforza analoghe e diverse “lotte di classe sul palcoscenico” (per citare il libro di Lidia Cirillo) – e oltre il palcoscenico – che si stanno svolgendo altrove. Complimenti a loro.

Leggendo, riflettevo su quanto – questa città, i suoi uomini, le sue donne – sanno fare del bene dal male, sanno trarre “tutto” da ciò che altri considerano “niente”. Così, mentre a Roma è stato alzato un muro a dividere il foyer dalla platea del Teatro Valle – che, senza coloro che lo avevano animato e fatto vivere davvero è, adesso e di nuovo, una sala abbandonata al silenzio e all’incuria – all’Asilo sono riusciti a realizzare una buona pratica fatta di mille pratiche, che risponde concretamente ad alcuni dei bisogni che appartengono non solo ai lavoratori dell’immateriale ma alla cittadinanza tutta: si pensi – senza retorica – già solo al bisogno di incontrarsi, di partecipare, di fare, di imparare. 
Quest’opera di riappriopriazione di un bene comune, che afferma ciò che è pubblico come “di tutti” e non dunque oggetto privatisticamente gestito da consorzi elettorali momentanei, è dunque riconosciuta dalle istituzioni come un atto salvifico, che migliora le condizioni di vivibilità collettive e rafforza le possibilità creative degli artisti napoletani. Non è un caso che – dopo aver iniziato con una controprogrammazione teatrale ed artistica che aveva generato qualche malumore in chi offriva spettacoli nei piccoli spazi, in maniera indipendente e con grossi sacrifici personali – l’Asilo sia diventato, tra l’altro, uno spazio di prova, un luogo di formazione laboratoriale gratuita, uno spazio di incontri e di approfondamenti, un teatro nel quale pensare, ideare, provare a costruire visioni che vivranno su altri assiti più che un palco che offre messinscene. Ed è questo, adesso, il punto tuttavia. Perché il sindaco – che si ricandiderà alle prossime elezioni -, valorizzata questa pratica dal basso, non può limitarsi a questo pur importante gesto compiuto ed anzi, proprio perché ne riconosce il valore, deve compiere uno sforzo ulteriore e comprendere anche le urgenze che l’Asilo – nel nascere – ha indicato. 
In questa città non ci sono sale di prova, non si attuano politiche culturali durature, nessun sostegno è offerto agli spazi che – a spese loro – tentano di ospitare e produrre teatro; in questa città manca un serio lavoro di mappatura degli spazi teatrali che operano davvero con continuità di gestione e programmazione, non ci sono sportelli di consulenza per i lavoratori dello spettacolo, troppe iniziative artistiche di valore (penso, ad esempio, al lavoro svolto da Femminile Plurale) sono prive di una casa che dia stabilità e continuità al loro impegno; in questa città non si riflette da troppo tempo e seriamente sul decentramento extraurbano (la periferia Ovest, ad esempio, è quasi totalmente priva di spazi teatrali), non ci sono biblioteche specifiche dell’attore e del teatro (segnalo, anzi, che il Novecento letterario sta ammuffendo nelle sale ancora chiuse della Brancacciana a piazzetta Nilo); in questa città non c’è una progettualità continuativa sulle residenze, che permetta agli artisti napoletani la pratica del confronto con i loro colleghi nazionali e internazionali, né si riesce ancora a superare la logica dell’Evento; in questa città manca competenza specifica in chi si occupa istituzionalmente di teatro e di cultura e non c’è nessun progetto di microcredito – per favorire lo start-up più innovativo – né si riesce ad elaborare iniziative che favoriscano la partecipazione dell’imprenditoria privata (che altrove sponsorizza, permettendo l’esistenza di avventure teatrali che rimangono indipendenti nel loro darsi).
Insomma: come si vuole rispondere ad una generale condizione effettiva di miseria materiale e strutturale che riguarda gli artisti (attori, registi, musicisti, orchestrali, danzatori, scenografi, drammaturghi, etc), che vivono stabilmente sotto la soglia di povertà relativa stabilita dall’ISTAT e che abitano un contesto lavorativo in cui si vedono, da un lato, “rendite di posizioni” pluriennali – capaci di tramutare il sostegno ministeriale o regionale in lucro – e dall’altro l’indotta abitudine al sostentamento “in nero”, accidentale o addirittura alla gratuità della prestazione artistica? Cosa si vuol fare rispetto all’insolvenza delle istituzioni (locali e nazionali) che sono puntualissime nel richiedere il pagamento dei tributi – al punto da costringere al prestito bancario gli interessati – ed invece ritardano per mesi o per anni nell’erogazione dei propri contributi? Ed è logico – mi chiedo ancora – che nella riscrittura della Legge Regionale dello Spettacolo, che sta avvenendo proprio in questa città, siano chiamati a partecipare soltanto gli iscritti all’Agis e non anche tutti quegli spazi che, quotidianamente, propongono teatro vivo e nuovo in Campania e della cui esistenza né gli assessori, né il sindaco, né il presidente di Regione sembrano essersi ancora accorti? 
Non si tratta – sia chiaro – di richiedere o di attendere l’avallo di un principe illuminato né di affidarsi ad un mecenate partitico per affermare il proprio diritto alla sopravvivenza: si tratta invece di pretendere una funzione di governo complessivo della città, in grado di rispettare, rafforzare e dare continuità anche alle pratiche molteplici di autogoverno civico che si autodeterminano e – parimenti – di manifestare un’idea più ampia di politica culturale che ne tenga conto come tenga conto di altre esperienze “dal basso”, indipendenti, che cercano in maniera differente di rispondere a necessità urgenti, che non sono più rinviabili. 
Ecco, quella dell’Asilo è una gran bella notizia. Ma non è che la prima di altre che devono venire ancora, nella speranza che – le istituzioni e chi le rappresenta – non pensino (furbescamente) che tanto ci sono sempre cittadini pronti a bilanciare le mancanze delle istituzioni medesime, sentendosi così sgravate dalle responsabilità che invece loro toccano e delle quali sono chiamate rigorosamente a rispondere.

PS. Inutile soffermarsi – mi pare evidente – sia su Gianni Lettieri e sulla sua risibile ed opportunistica idea di fare dell’Asilo (proprio dell’Asilo, guarda un po’) il luogo destinato al Fondo De Filippo sia sul “vecchio che ritorna” ovvero quell’Antonio Bassolino, la cui insistenza alla rinascita politica sembra promettere nuove stagioni di ricchezza momentanea, basate sull’elargizione (e la dissipazione) di fondi europei.