Serata Beckett con Gabriele Frasca

proiezione di Film | Not I | Quad | Catastrophe

martedì 16 febbraio 2016 ore 19.30 | l’Asilo

FILM (USA 1964) di Alan Schneider, sceneggiatura di Samuel Beckett, con Buster Keaton.

NOT I (UK 1973 – v.o.) di Samuel Beckett, con Billie Whitlaw. Regia: Anthony Page. Prima assoluta al Royal Court Theatre il 16 gennaio 1973.

QUAD (Germania 1981), diretto per la tv da Samuel Beckett e trasmesso dal Suddeutscher Rundfunk l’8 ottobre 1981 come quadrat i + II

CATASTROPHE (Irlanda 2000 – v.o. – sub. ita) con Harold Pinter, Rebecca Pidgeon, John Gielgud. Regia: David Mamet

A quasi trent’anni dalla sua morte, Samuel Beckett rimane un autore impossibile da contenere in una di quelle teche in cui, nella imbalsamazione che sempre sussegue alla morte di un autore, si è soliti riconsegnare la vitalità dei suoi congegni alla fiacca frequentazione d’intenditori e collezionisti. Persino la critica, a partire da quella accademica, onnivora sì ma solo per vocazione al dispendio cartaceo concorsuale, non è mai riuscita a regolare i conti con un’opera che sembra sottrarsi a ogni pacificante definizione, e che lascia a ogni assalto classificatorio sempre un residuo, un di più, un eccesso irriducibile. La cultura italiana, poi, da un bel po’ di tempo propensa a una leggerezza in odore di vacuità, ha preferito nel caso di Beckett andare decisamente per le spicce, rappresentandolo il minimo indispensabile, leggendolo poco e male, e traducendolo persino peggio. A tutt’oggi, per fare un solo esempio, i testi teatrali prodotti fino alla fine degli anni Sessanta risultano tutti tradotti dal francese, anche quando la prima stesura era in inglese, e persino quando, come nell’Ultimo nastro di Krapp, l’autore aveva definito la sua stessa traduzione un «adattamento»; o quando, come in Tutti quelli che cadono, il traduttore era addirittura un altro (Robert Pinget).

Certo, a dispetto di tanta trascuratezza, se non malevolenza, ben più evidente appare l’influsso beckettiano sugli autori italiani, al punto che sarebbe lecito parlare di un autentico «effetto Beckett» sulla nostra letteratura (con influssi tangibili per lo meno a partire da Manganelli e Calvino). Eppure, il lettore italiano non solo non è messo in condizione di rintracciare le opere di questo autore (troppi risultano i testi introvabili) ma, ove mai avesse intenzione di approfondirne la conoscenza, non potrebbe avvalersi di opportuni supporti critici. La critica in Italia (con le dovute eccezioni) si è dedicata ad altro, e quando è stata costretta a occuparsi di Beckett lo ha fatto con un pressappochismo sconsolante. Così può ancora capitare che l’inserto domenicale di un noto quotidiano spacci per «inedita» una sua lettera in tedesco del 1937, non solo pubblicata sin dal 1983 ma addirittura apparsa in italiano (nella traduzione di Aldo Tagliaferri, critico beckettiano della prima ora) nel 1991. Qualcosa insomma di questo autore, che pure tanto amò la cultura italiana (e Dante su tutti), non consuona con le nostre strategie editoriali, con il debolismo del nostro pensiero, e il salottismo delle nostre rubriche letterarie. E cosa? Magari la sua «duplicità».

Diavolo di un Beckett! Sempre pronto a raddoppiarsi, per poi disperdersi in un’inarrestabile moltiplicazione dei piani, a partire magari da quello della data di nascita, che cadeva a sua detta il 13 di aprile del 1906, ma che l’atto di registrazione posticipava di un mese, impedendo persino di trarvi, per dirla con il titolo del suo primo poemetto, l’opportuna «oroscopata» (whoroscope). Due di tutto, insomma, con Beckett, sempre. Due identità nazionali da confondere, quella irlandese di nascita e quella francese di elezione. Due ossessionanti identità religiose da disperdere, quella gravosa protestante della famiglia di origini ugonotte e quella asfissiante della cattolicissima repubblica d’Irlanda. E così di seguito, da una coppia (ma lui avrebbe preferito dire «pseudocouple») all’altra, fino al succedersi delle immagini bifronti e instabili della sua stessa identità autoriale: Beckett artista e Beckett critico, poeta e narratore, scrittore per la pagina e per la scena, drammaturgo e regista, uomo di teatro e uomo di media… senza che mai si riesca, nel riverberarsi di tutte queste duplicazioni, a trovare per lo meno un genere, che non sia quello tutto suo che li abolisce tutti, cui legare il suo nome. Non c’è opera beckettiana insomma, sia essa nata per la pagina tipografica o per la scena, per la radio o per lo schermo, che non finisca col fondere tutti i media utilizzati e tutte le modalità di ricezione, cospirando per un unico arcigenere che converge sul fruitore per chiamarlo direttamente in causa. Come se, per intenderci, un home theatre appena attivato mettesse in risonanza i protoni di chi lo ha messo in funzione, così da offrire sullo schermo lo spettacolo della sua stessa immagine tomografica computerizzata. Diavolo di un Beckett! Due di tutto, si diceva: e soprattutto due lingue, francese e inglese, in perpetuo rimando, in perenne squilibrio, in continua contesa, sempre pronte a rilanciare ogni singola opera, apparentemente compiuta, in un nuovo inizio «per finire ancora». Paradosso postbabelico, certo, ma innanzi tutto postbellico.

«Se scoppierà una guerra, come purtroppo temo accadrà presto», scriveva da Parigi a un amico il 18 aprile del 1939, «mi metterò a disposizione di questo paese». Per quanto cittadino di uno stato neutrale, e di carattere schivo e riservato, Beckett non esitò difatti un momento a lasciarsi coinvolgere nella lotta al nazifascismo. L’anno successivo, nella città occupata, era già attivo nella cellula della Resistenza francese denominata «Gloria SMH», alle dirette dipendenze del SOE britannico, prestando le sue competenze linguistiche per tradurre i documenti da inviare a Londra, che lui stesso recapitava all’agente che avrebbe dovuto microfilmarli. E questo fino all’agosto del ’42 quando, denunciati da un infiltrato del controspionaggio tedesco (un sacerdote), quasi tutti i membri della cellula furono arrestati (molti di loro morirono nei campi di concentramento). Beckett fuggì con la sua compagna Suzanne poco prima che la Gestapo facesse irruzione nel suo appartamento, e dopo varie peripezie riuscì a raggiungere, con l’aiuto di amici comunisti, un paesino nelle Alpi in cui trascorse nascosto il resto della guerra, procacciandosi da vivere, fra gli stenti che saranno poi le condizioni esistenziali di tutti i suoi personaggi, con il lavoro nei campi. Ebbene, finita la guerra, Beckett metterà anche la sua opera «a disposizione» del paese che lo aveva ospitato, cominciando a scrivere in francese, con un’ulteriore risoluzione paradossale che è in verità un’ennesima presa di coscienza, proprio nelle date della pervasiva diffusione in Europa della lingua e della cultura dei vincitori (angloamericani). Da quel momento in poi, francese e inglese si offriranno in modo indifferenziato nelle fasi di prima stesura di ogni sua opera, innestando però i procedimenti di «autotraduzione» nelle stesse strategie compositive.

Se è vero, difatti, che a partire da questa singolare scelta per una «lingua minore», o un «uso minore della lingua» (come avrebbe detto Gilles Deleuze), le autotraduzioni beckettiane, come quelle di tutti gli scrittori «equlingui» (in grado cioè di comporre indifferentemente in due lingue diverse), vanno sempre considerate delle autentiche riscritture, è altrettanto vero che la fortuna che arrise al teatro di Beckett dopo il successo parigino e poi mondiale di Aspettando Godot (1952) mise ben presto l’autore nella necessità di tradurre le proprie opere teatrali in tempi sempre più brevi. S’instaurò allora una sorta di tecnica di doppia gestazione che, col proseguire degli anni (e il Nobel del 1969 che aumentò di gran lunga l’appetito di testi non solo teatrali), divenne un passaggio obbligato nella genesi delle sue opere. I testi di Beckett, dunque, vivono di un equilinguismo in atto (né vanno dimenticate le sue «collaborazioni» alle traduzioni in tedesco dei coniugi Tophoven), in un’autentica tensione, perseguita per tutta la vita con rare eccezioni, alla duplicazione dello sforzo creativo, che in qualche modo distrugge persino l’ultimo grande mito della cultura tipografica, quello filologico dell’«originale». Beckett, insomma, ogni qual volta si traduce nell’«altra» lingua, continua a essere autore (e dunque lima, modifica, aggiunge), al punto tale che ogni sua traduzione è in realtà una nuova stesura dell’opera stessa (conclusa la quale, spesso, ritorna a «rivedere» l’«originale»).

Se la coesistenza di due stesure alternative in lingue diverse sottrae la letteratura alla sua vocazione romantica (cioè identitaria e nazionalistica), è altrettanto vero che, non potendo legittimamente darsi «due originali», allora si ha a che fare esplicitamente con due «testimoni» in cui la «tradizione» del testo è come se rimbalzasse. Due «tradimenti», alla lettera, che rimandano a quell’unico originale che non c’è. Gli «originali pseudocopulari» di Beckett  traggono dunque linfa dalla proficua messa in contraddizione dei due concetti più cari alla filologia positivista: quello dell’«originale fededegno» (che spetterebbe alla stesura nella prima lingua) e quello delle «ultime volontà dell’autore» (che si ritroverebbero piuttosto nella seconda). Come aveva ben visto per tempo Michel Foucault: «la letteratura è la contestazione della filologia». Ma sia chiaro:  questo sistema a «doppio originale» (croce e delizia di ogni traduttore «terzo») non è che preveda il paziente (e intellettualistico) entusiasmo di un lettore bilingue, lettore-interprete invitato a fare l’opera con l’autore, ma programma piuttosto un lettore «paradossale», capace di rinunciare per prima cosa alla propria «origine» (lingua, nazione, identità). Un lettore, insomma, che sappia sentire in sé, una volta sottratto alle strategie di concentramento di ogni lingua materna, e a quelle di contenzione di ogni impossibile basic, risuonare «in qualche modo» e «in nessun modo ancora» né una lingua né l’altra, per comprendere infine, se nulla mai nell’arte del discorso si chiude (ma tutto si traduce costantemente e sciama), che, come avrebbe detto Paul Zumthor, «l’opera ultima del linguaggio, nei suoi sforzi poetici più generosi, è opera per necessità incompiuta». Quando si è in due, due-in-uno, come Estragone e Vladimiro, non c’è mai nulla di definitivo, ma tutto resta da compiere, confondere e disperdere ancora. Come dovrebbe insegnarci la «pseudocoppia» che è in ciascuno di noi: quella degli emisferi del cervello.

Gabriele Frasca

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