I beni comuni fra Napoli e Roma, parte prima – Tempo del lavoro, tempo dell’occupazione

di Francesco Migliaccio

su Odiolode http://odiolode.wordpress.com/2012/07/03/i-beni-comuni-fra-napoli-e-roma-parte-prima-tempo-del-lavoro-tempo-delloccupazione/

Napoli, piano terra dell’Ex Asilo Filangieri, ultimo martedì di giugno.

Nel ventre del centro storico, a due passi da San Gregorio Armeno, ritrovo l’Ex Asilo Filangieri, lo spazio occupato a marzo da La balena, un collettivo di lavoratori della conoscenza e dell’immateriale. Sono le sette di sera, assisto a una riunione organizzativa. Gli occupanti hanno deciso di realizzare un talk show – il Talking Asilo – da trasmettere in streaming. Il Talking Asilo sperimenta forme alternative di comunicazione mediale: una trasmissione in diretta arricchita da dibattiti, sketch improvvisati e collegamenti dalle occupazioni di Roma, Catania, Milano e Palermo. Come tutte le espressioni culturali realizzate nell’Asilo, anche il Talking Asilo nasce da un processo creativo collettivo e partecipato e ha l’ambizione di coinvolgere e raggiungere gli strati più eterogenei della popolazione napoletana e nazionale.

Le ragazze e i ragazzi in riunione lavorano nello spettacolo – attori di teatro, sceneggiatrici, tecnici video – e in due ore immaginano la puntata a venire, discutono le idee e i temi da affrontare. Fra di loro c’è Ciro: alto, magro, un poco di barba. Ciro fa la televisione, si occupa delle operazioni di regia durante le dirette dagli studi televisivi e gran parte degli accorgimenti più acuti emergono dalla sua esperienza. A un certo punto si rivolge a tutti noi, seduti in cerchio: «A fine luglio non posso darvi una mano, perché sono a Londra, con Sky». Deve lavorare per la trasmissione di Ilaria D’Amico. Immagino il classico dibattito sulle olimpiadi, uno studio scarno e illuminato a giorno, i bilanci di una giornata di gare, gli atleti italiani con gli occhi sgranati, una medaglia che oscilla pesante dal loro collo. Ciro si divide fra il lavoro retribuito e l’aiuto volontario entro i confini dell’Asilo. Fra Londra e Napoli.

Non credo che Ciro sia un occupante assiduo dell’Asilo. Eppure ne incarna la peculiarità più interessante: alcuni lavoratori dello spettacolo, precari e spesso sfruttati, occupano un luogo e vi sperimentano nuove connessioni fra economia, cultura e lavoro. E sfuggono – sono brevi tratti di tempo – al malessere e all’alienazione contemporanei. Gli occupanti restano lavoratori: continuano, là fuori, a vivere alla giornata, ad attendere gli stipendi di produzioni esaurite e dimenticate. Ma una parte del loro tempo libero, del loro tempo non alienato, è dedicata alla costruzione di una alternativa possibile. Un frammento di tempo giornaliero è sottratto all’industria culturale per coltivare l’alternativa: una cultura disponibile ai cittadini (un bene pubblico) e sottratta alle logiche vigenti del mercato.

Pochi giorni prima ero su un divanetto del Teatro Valle. Era sabato – il sabato del Pride di Roma – e parlavo con Orsetta, attiva fin dal primo giorno di occupazione: «Gli artisti che propongono qui i loro spettacoli non sono retribuiti, di norma. Propongono le loro performance qui, sul palco del Valle, per contribuire all’esistenza di questo spazio e del progetto di società che abbiamo iniziato a pensare. I soldi raccolti dalle offerte volontarie del pubblico sono impiegati per sostenere la struttura e per pagare le trasferte e le attrezzature degli artisti.» Non ho capito fino in fondo la portata delle sue parole finché un’altra giovane occupante, a Napoli, ha ricordato che l’Ex-Asilo Filangieri «è un luogo aperto agli artisti che hanno un’idea creativa, ma non dispongono dei mezzi per realizzarla, per metterla in scena. Noi dobbiamo fornire gratuitamente i mezzi per produrre gli spettacoli a chi non ha i soldi per finanziarli.» Intuisco, allora, che gli occupanti si sono appropriati dei mezzi di produzione dello spettacolo (il teatro, le attrezzature sceniche) e li hanno messi a disposizione degli artisti e dei cittadini. Gli incassi delle serate devono rendere sostenibile la manutenzione e il potenziamento degli strumenti di scena, delle apparecchiature di ripresa e della struttura complessiva dello spazio occupato.

Avevo le spalle sempre più affondate nel divano di pelle, poco lontano dalla porta d’ingresso del Valle; una domanda è sorta spontanea: la prospettiva non dovrebbe essere anche quella di retribuire gli artisti secondo il giusto valore del loro lavoro? «L’orizzonte a cui miriamo è quello, certo. Per il momento dobbiamo sopravvivere: permettere la realizzazione degli spettacoli proposti dai soggetti che aderiscono al nostro modello e resistere qui dentro, in modo da dare forma al progetto politico che qui a Roma stiamo sperimentando insieme all’Ex-Cinema Palazzo. Molti di noi hanno perso molto tempo qui dentro, e molti soldi: per questo raggiungere un’autonomia e una sostenibilità totale è la nostra vera scommessa.» Grazie all’imminente costituzione della Fondazione Teatro Valle Bene Comune, il Valle è la realtà più vicina, forse, a realizzare un sistema autonomo e autosufficiente: diffondere la cultura come bene comune, controllare i mezzi di produzione spettacolare e retribuire il lavoro di tutti i protagonisti delle produzioni.

Gli artisti e i lavoratori dello spettacolo nell’Asilo di Napoli e nell’Ex-Cinema Palazzo e nel Teatro Valle, quindi, coltivano parte del loro tempo libero per sperimentare nuove forme di diffusione e di gestione economica della cultura. Immagino una membrana che divide il tempo normale (quello del lavoro: precario, alienato, diretto dalle logiche neoliberiste) da piccoli spazi di tempo nuovo (il tempo libero dedicato all’appropriazione e alla gestione collettiva dei mezzi di produzione dello spettacolo). I soggetti occupanti, ogni giorno, si spostano da una condizione di lavoro all’altra: attraversano la membrana.

È tardi, a Napoli, è calata la sera e cammino in Via dei Tribunali – i negozi chiudono e per strada restano i banchi delle friggitorie, dense di odori. Ho un’allucinazione: se è vero che il capitalismo contemporaneo si riduce a un’immensa fantasmagoria di spettacoli – dove si dissolve il confine fra le merci, i prodotti della conoscenza e i linguaggi pubblicitari – forse mi trovo di fronte a una zeppa, forse ho assistito ai primi tentativi di far saltare gli ingranaggi della società dello spettacolo. La produzione del valore si concentra sempre di più nella conoscenza, ma alcuni lavoratori si stanno appropriando dei mezzi di produzione del nostro Occidente post-industriale. E li stanno collettivizzando. Cala la notte su Napoli, ma alcune luci si accendono e illuminano flebilmente i vicoli del centro.