Apprendiamo dai giornali la decisione di sciogliere la Fondazione Forum delle Culture nel prossimo Novembre.

Non intendiamo, in questa sede, tornare sulle critiche avanzate da noi ed altri, sotto forma di inchieste (leggi quiqui e qui e guarda qui), alla Fondazione, né sull’ingloriosa storia che ha portato al suo scioglimento.

E’ tempo, invece, di tracciare un bilancio su due modelli di gestione della cultura che direttamente o indirettamente si sono opposti in questi anni, anche soltanto come due alternative possibili.

Il modello che ha corpo e vita all’Asilo, innanzitutto. Sviluppato con necessaria lentezza e costanza, esso è diametralmente opposto a quello della Fondazione Forum delle Culture: poggia su una pratica costante fatta di assemblee settimanali; decisioni prese sulla base del principio del consenso e sull’assenza di gerarchie formalizzate o informali, così come di identitarismi di sorta; sulla messa in comune delle risorse e dei mezzi necessari alla produzione e alla fruizione libera di cultura, arte, saperi.

Il principio del profitto, ossia dell’appropriazione privata delle risorse che non vengono reinvestite è stato ribaltato in favore del reinvestimento continuo di tutto ciò che ha costituito la nostra ricchezza visibile – costituita dalle sottoscrizioni, da materiali che ci sono stati donati, da strumenti e mezzi produttivi dei quali ci siamo riappropriati – e invisibile, ma non per questo meno concreta – costituita dalla costanza, dall’esperienza maturata in questi anni di autogestione e dal coinvolgimento diretto di quante e quanti hanno ritenuto possibile costruire un modello alternativo alle macerie della morente gestione post-bassoliniana della cultura.

E in proposito, riteniamo che vada messo a bilancio nell’esperienza cittadina il fallimento definitivo della naufragata Fondazione e del suo modello costruito gerarchicamente – e geneticamente – attorno alla figura di un politico di professione (vertice); sulla sovrapposizione tra partito e amministrazione; sull’uso clientelare, cioè privato, dei fondi pubblici da parte dell’amministrazione pubblica. Il risultato è visibile: una figuraccia internazionale; lavoratrici e lavoratori che ancora aspettano di essere pagati; milioni di euro nel migliore dei casi sperperati, nel peggiore finiti nelle tasche di pochi; l’assenza di uno straccio di programma culturale o di una vaga idea di cosa fare nei prossimi mesi.

Arrivati a questo punto, dunque, abbiamo ritenuto utile e necessario trarre queste conclusioni.
Sia chiaro: non abbiamo nulla da “dimostrare” nella misura in cui questi due anni di Asilo parlano da soli – così come la tragicomica conclusione della parabola della Fondazione.

Tuttavia, mettere quasi fisicamente sul piatto della bilancia due modelli opposti – uno autogestito e basato sulla messa in comune dei mezzi produttivi, l’altro rigidamente gerarchico e basato sull’uso di fatto privato di risorse comuni – potrebbe risultare utile in un periodo di crisi in cui è necessario ripensare completamente il proprio stare al mondo.

Restiamo infine consapevoli che da qui a Novembre – data in cui il morto verrà seppellito – ancora tanti cercheranno di trarre qualche beneficio dalle macerie della Fondazione: soldi verranno spesi in tutta fretta, senza progettualità e senza trasparenza, senza sapere come e da parte di chi.

Noi, prendendo in prestito una frase di Buenaventura Durruti, non abbiamo paura delle macerie, consci di quanto costruito, dei nostri limiti e di quanto ancora vogliamo e possiamo costruire.