Nato durante la pandemia, questo diario comune è una raccolta di pensieri, uno scritto intimo, ma anche un racconto della realtà, una testimonianza, una riflessione sul tempo, un sentimento da condividere ed esorcizzare.

Le pagine di un diario sono infinite: se hai degli scritti che ti raccontano e ti va di pubblicare le tue pagine in questa raccolta, puoi scrivere a la_tela@exasilofilangieri.it


in più momenti

…proviamo a creare qualcosa tipo una parete bianca su cui mettere tante cose.
come il muro su cui si affiggono i tazebao
e lo componiamo

Trovo terribile l’espressione “composizione del muro”
Possiamo nominarlo diversamente?
noi non ci vediamo per comporre muri
Chiamiamolo anche banalmente Piattaforma
Gioco di composizione
Condivisioni Virali
ma evitiamo la parola muro
Già stiamo barricati
O no?

Potremmo chiamarlo TELA?
A me piace molto tela
Tra l’altro lascia intendere l’esistenza di un ordito, un intreccio
Mi piace tela, notoriamente si fa e si disfa
Giusto! TELA

la tela si dipinge
o anche si tesse
il tappeto pure si tesse
in più sul tappeto si può volare…

Sabato 7 marzo: l’ultimo evento pubblico all’Asilo: ‘Grande come una città’.
Il giorno dopo è tutto interrotto. 
Trascorrono delle settimane nel chiedersi che fare. 

Come conservare lo spirito comunitario?
Come reinterpretare la pratica artistica e culturale alla luce della nuova situazione?
Come dare voce alla critica dell’esistente?

Il 14 marzo si decide di rompere il silenzio dei giorni precedenti, mettendo assieme i nuovi termini che hanno cominciato a diventare ricorrenti durante la quarantena.

Dal 16 cominciano a moltiplicarsi i giochi di parole. All’arrivo della primavera si inizia a condividere i primi racconti che in breve daranno forma a un diario di bordo, irregolare e caotico, per trasformare questo momento in uno spazio di elaborazione collettiva da conservare per una creazione futura.

Alla fine di marzo si considera l’idea di mettere assieme tutti i materiali prodotti che raccontassero il momento, condividendoli on line.

L’Asilo è un bene comune. Senza questo spazio qual è il bene comune? La rete delle persone può diventarlo. Questa rete diventa un bene comune: la Tela.

Il 28 marzo viene creato un archivio digitale in cui si comincia a raccogliere video, audio e immagini, ispirate e raccolte dalle persone che abitavano l’Asilo le quali, rimaste prive di un luogo materiale in cui ritrovarsi, e mosse dall’urgenza di prendere parola in quel difficile momento, hanno trasferito online la loro volontà d’incontrarsi per realizzare un’azione collettiva che andasse oltre il contributo individuale. Immaginando percorsi diversi da quelli abituali si è potuto fare tesoro dei tempi, divenuti improvvisamente lenti, della ricerca e creazione artistica.


Dobbiamo creare un luogo. La distanza sta creando molto desiderio di condivisione e di socialità. Si è palesata una grande esigenza espressiva diffusa.

Ai primi di aprile viene definito il progetto di un flusso sonoro aperto che coinvolga musicisti e musiciste di ogni luogo: ciascuno confinato nella propria abitazione, è invitato a registrare delle linee sonore che poi verranno messe assieme secondo criteri combinatori e parzialmente casuali. La call si allarga anche ad altri tipi di contributi artistici (video, testi…). 
Nasce una mega non composizione, priva di direzione.

Il 7 aprile riceviamo le prime tracce. Nel giro di un mese circa un centinaio di esecutori si ritroveranno assieme, seppure su un piano virtuale, ma nella concretezza del suono, rappresentando ancora una volta quello spirito di interdipendenza e di cooperazione che è l’essenza del processo dell’Asilo. I risultati diventeranno il tessuto sonoro della Tela.

Una volta pubblicata, la tela si presta a essere disegnata, scomposta, ricomposta, plasmata, impastata, scritta, musicata, con contributi online pubblici. Ci sono e ci saranno errori. Ma quelli, come il resto, verranno lasciati accadere e fluire liberamente.


a marzo o giù di lì

Cose belle in quarantena.
la strada è una di quelle centrali, di quelle sempre affollate, di quelle che a passarci ci vuole sempre un po’ di tempo. e io ho mangiato legumi… per giorni, ho mangiato legumi. lo stomaco si contorce, il ricordo della civiltà lo lascia a contorcersi ancora un po’. ma poi ricordi, lo noti dal fatto che in giro non c’è nessuno, ma in realtà è più perché lo ricordi. e ti lasci andare. scoreggi. e la scoreggia esce, rumorosa. e si prende i suoi tempi. so tempi lunghi, tempi di quarantena. tempi che alzi un piede che si sposta che arriva a terra che sposti il baricentro che alzi l’altro piede che si sposta che sposta il baricentro chespostilaltropiede dio santo stai ancora a scoreggià!!!!
cose belle in quarantena. ah no, in quarantena dovevo sta a casa.
e allora niente. cose belle e basta.


14 marzo

e dopo?

Non si poteva immaginare che ci sarebbe stato un dopo. abituati tutti ad annegare nella frenesia di fare e produrre. non ci resta che fermarci ad aspettare che passi il prima e attendere febbrili il dopo.

Il dopo porta con sé tante domande che sveleranno poco a poco chissà quali e quante risposte. 

Il tempo, era molto tempo che non mi prendevo del tempo per pensare al tempo. Di botto il mio tempo non è più lo stesso di prima, non so ancora dire come sia. Sono sicura di una cosa però: sono sicura di averlo. Ho il tempo e non mi è mai parso più concreto di così. Sembra una pietra tanto è denso. ha mutato la sua sostanza, credo sia successo a tutti noi di ritrovarsi ora in un tempo mutato all’improvviso. Il tempo penso possa essere un tema. 

La frenesia costringe gli individui alla routine, senza che essi siano costretti a pensare ad un prima e un dopo. Oggi quest’accidente si è fermato. Il tempo mi sembra possa essere un macro contenitore di pensiero e produzione di pensiero. Siamo chiamati a dare un valore differente al tempo, a dargli un valore forse per la prima volta. questo valore nuovo esula dalle regole che pensavo di conoscere. Non si tratta più di produrre in questo tempo strano. E di che cosa allora?

Il lavoro non sappiamo che sarà da oggi in poi, anzi da domani in poi. Dopo. Sento necessario dare parole al lavoro. Sono senza parole.

l’educazione è stato il mio lavoro negli ultimi 3 anni. questo lavoro mi ha portato a decidere che la prima persona a dover essere educato ero io medesima.

Educare me stessa al rispetto verso me stesse, e ad una certa benevolenza. Educare me stessa a saper dire Sì e No. Educare me stessa alla gioia. e al dolore. Educare me stessa ad un fare che tenesse conto senza contare. Pensavo di essere sulla buona strada. è stato un virus a smentirmi. ha fermato tutto. quello che ritenevo superfluo e quello che no non sono mai stati così mescolati. Si intrecciano, si decussano, poi si ritrovano per poi lasciarsi di nuovo.

Mi ritrovo in questi giorni spesso alla finestra a pensare al dopo. questa finestra è uno strano spazio. Abitato tanto dentro quanto fuori. è uno spazio piccino e intimo e mi porta a immaginare quanti spazi simili a questo esistano e a che cosa contengano. Finestre, tante, ognuna abitata e differente. questo spazio  tanto privato quanto pubblico mi fa pensare. Mi fa pensare che possa essere una metafora della condizione che stiamo vivendo. penso che potremmo pensare di utilizzare queste finestre come se fossero un teatro dell’esistere al tempo del male. un male che ci riguarda tutti e ci spinge a scegliere che futuro desideriamo.

Ho pensato che potremmo chiamare quello che faremo (qualsiasi cosa sarà) Rolling Stones. Siamo chiamati tutti a superarci, a superare lo stato in cui ci sentiamo costretti. andare oltre la materia(lità) e rotolare, muoverci di nuovo anche se ci sentiamo pietre.


domenica 15 marzo

abituati a delle certezze e a una chiarezza di priorità collettive riconosciute insieme e condivise con il mondo dopo anni di ragionamenti e di pratiche comuni, oggi la cosa più difficile sta diventando capire dove ci troviamo veramente, senza il rischio di appoggiarci alle solite analisi precostituite, di cui siamo ancora pienissimi e per questo ancora a volte poco inclini alle diversità di approccio di un mondo iper complesso (noi come tutto il movimento).
E’ una condizione veramente nuova questa, in cui si sovrappongono troppe emergenze che scombussolano continuamente la lucidità (anche qui non so quanto possano essere soggettive le sfumature di queste emergenze e non mi sogno – e mai lo farò – di condividere le mie).
E oggi anche la certezza della ricetta comunitaria vacilla, che non sia il caso di viverselo fino in fondo questo isolamento per me che da sempre sono un animale sociale? E’ una domanda che mi faccio. E in effetti mentre scrivo mi accorgo che forse la prima novità per me che da sempre faccio il portavoce dell’impersonalità, è che sto scrivendo in prima persona singolare e non plurale.
Sento però che stare nel mondo è una necessità che rimane viva. E stare nel mondo non è la stessa cosa di stare in comunità, mettiamocelo in testa, spesso si sta in comunità perché il mondo là fuori fa schifo ed è meglio stare con i propri affini. Ecco a me questo sicuramente non interessa.
E da qui magari provo a ripartire ricostruendo motivazioni e desideri – quelli che mi fanno generare utopia e entusiasmo (da sempre per me antidoto vitale e sincero contro ogni rischio di deriva di arraggio e cattività).

Ecco sicuramente un’altra cosa che mi manca e di cui forse ho bisogno per alimentare ciò di cui sopra, è il FUTURO. Il pensiero è troppo costantemente orientato al presente e a ciò che dobbiamo fare ora. Eppure sono abituato che nei processi artistici il momento presente è sempre prezioso, oggi invece la sento una gabbia.


20 marzo

Oggi mi intrattenevo con delle abitanti dei bassi (in sicurezza). Quello che mi ha impressionato di più è la mancanza di lucentezza della pelle. Un pallore ospedaliero e l’affanno costante accompagnato da boccate continue di tabacco. La nevrosi si sta diffondendo più velocemente del virus. E io credo che i sistemi politici saranno messi alla prova dall’isteria di massa più che dal virus. Questo significa che il lavoro da fare è enorme. Non basterà risolvere i problemi materiali. Il dramma è più profondo. Ma su questo piano alle sinistre manca completamente la cultura. Quando in questi giorni ne parlo con compagn_ l’unica cosa che vedo spuntare sul viso è il riso beffardo di chi ha la teoria già pronta ed è schermato da una dose di realismo da sembrare una faccia mummificata dal botulino.
[la prima parte di questo testo è stato il punto di partenza per Reflusso, una delle opere aperte della Tela]


sabato 21 marzo

Compagn*,

vi racconto qui brevemente quello che abbiamo vissuto io e Chiara stamattina alla mensa di Piazza M.

PREMESSA: La situazione è molto controllata.

Chi ha voglia di andare, sappia che le condizioni igienico-sanitarie sono rispettate nel senso che in una cucina molto grande eravamo solo una decina tra volontari, Don M e ex-detenuti che vengono a prestare servizio.
Tutti avevamo mascherine, guanti e cuffiette. I guanti ce li cambiavamo spessissimo producendo montagne di plastica igienico-sanitarissima.

Comunque, la giornata sì e così svolta:

Ore 8.30: Io, C e S a piazza M.
Stavamo SUL’ NUJE.
Entriamo in mensa e cominciamo a preparare 500 cestini per il pranzo, mettendo in buste di plastica: pane (avanzato dal panificio) , un pacchetto di biscotti, bottiglietta d’acqua e posate.
Mentre noi impacchettavamo in cucina, si tagliavano melanzane, zucchine e cipolle (e si piangeva) e si buttavano i primi 11 kg di riso per il pranzo di oggi.
Fatta la prima ondata di risotto, l’abbiamo messo in vaschette d’alluminio usa e getta (TVB GRETA) e aggiunto alle buste-cestini preparati prima.
Alle 11 già c’era fuori una fila di un centinaio di persone che aspettavano il pasto. Queste persone erano magicamente in fila lungo via M, con i carabinieri a fianco che non avevano niente da dire.
A uscire è stato solo il parroco che con un megafono invitava le persone a stare distanti e a essere ordinate. Noi dentro passavamo i cestini e lui, con un piede dentro e uno fuori, li consegnava (il suo braccio è veramente lungo un metro perchè questo prete è un altissimo mautone).
Finiti i primi 11 kg di riso se ne sono cotti altri 35 kg, sempre sezionati in tre ondate.
Poi abbiamo pulito e sanificato tutto, è arrivato un verdummaro che ha consegnato cassette di ananas e pomodori, abbiamo salutato i detenuti e sua eccellenza senza toccarli e siamo tornati a casa salvi.
Ora, sicuramente è cosa buona e giusta alternarci per dare una mano in questa mensa perché il numero di richiedenti pasti cresce ogni giorno di più, vista la necessità del momento e la chiusura delle altre mense per mancanza di operatori.
Ma, cosa DA FARE ASSOLUTAMENTE, sarebbe avviare una rete per decentrare la distribuzione ed evitare il più possibile affollamenti, assembramenti e riscenzielli là fuori. E ne parleremo.
Detto questo, vi invito ad andare con tranquillità igienico-sanitaria,
C’è tra l’altro un’autocertificazione ottenuta dalla mensa che attesta la libertà di camminare e scorrazzare perché ci si sta recando lì a prestare servizio.

Vi voglio bene. Stiamo vigili.
I vigili lo sono.

domenica 22 marzo

Buongiorno a tutti e tutte

Dopo il report di A e C sulla felice esperienza di ieri alla mensa della Chiesa del C, sento il dovere (ma anche il bisogno) di condividere con voi la mia di esperienza, all’opposto sconfortante.
Cerco di fare una cronaca: 

Arrivata alle 8:30 in cucina. E’ piccola e vedo 7/8 persone, quasi nessun* con le protezioni. Chi indossa solo i guanti, chi solo la mascherina, chi proprio niente. Lo spazio non garantiva molta distanza tra i corpi.
Ho respirato (nella mascherina, che mi ero premunita di indossare appena uscita dall’auto), sono uscita per riflettere un attimo, chiamato mia madre per confrontarmi con lei per capire se la mia paura e il mio dissentire fossero legittimi o da ascrivere in una paranoia del momento, e sono rientrata.
Ho chiesto al prete di parlargli in disparte, ma non ha voluto. L’abbiamo fatto davanti a 4 persone.
Chiaramente in difficoltà, gli ho detto che ci tenevo tantissimo a collaborare alla mensa, ma che non me la sentivo di restare se non tutti e tutte avessero usato guanti e mascherina, che così non mi sentivo protetta, e che non sentivo di proteggere gli altri e le altre.
Il prete mi ha SOLO detto, con fare distratto e tagliandomi a corto, che mi comprendeva e di andare via tranquillamente e poi si è rivolto subito a chi stava cucinando dando altre disposizioni (voltando pagina).
Io ho risposto, dicendolo anche agli altri e le altre, che non era corretto agire in quel modo. Che prendersi cura di quelle persone non poteva passare solo per la distribuzione del cibo, ma anche dal garantire la salute usando le precauzioni (dichiarandogli il paradosso della cura che offrivano per convincerli/e ad essere più responsabili).
Il prete prima mi ha risposto “che devo fare! ieri l’ho messa ma oggi non ce la faccio” e poi si è rivolto a chi era in cucina riferendogli che io chiedevo a tutti e tutte di mettere guanti e mascherina.
Una signora ha risposto: “Eh lo so. Figurati, io ho due figlie adolescenti ma ch’aggia fa, nun cia faccio”; un uomo di una certa età, mescolando i ceci, con sguardo basso ha sorriso (ho potuto vederlo perché aveva la mascherina ma abbassata sotto al mento).
Il prete mi ha poi chiesto se volessi lavorare nell’altra sala (ben più grande) dove PIÙ persone usavano la mascherina. Ci ho pensato un istante a occhi bassi, sguardo dentro, e gli ho detto di no.
Compreso che non c’era nulla da fare, e neanche un dialogo possibile, sono andata via.

In quel momento è arrivato S. Ci ho tenuto a parlare anche con lui, in disparte, non per essere “consolata”, per andare via senza sentirmi una vigliacca (rassicurazioni di cui avevo anche bisogno in quel momento di terribile scelta) ma  perché la questione era ben più grande del mio rischio personale, che avrei superato andandomene, e che il prete ha valutato unico motivo del mio dire. Era ovviamente ben più ampia. La questione che volevo affrontare era il rischio per la collettività, l’atteggiamento irresponsabile, il servizio ammirevole di volontariato reso vano. Ho sorvolato su altre questioni, legate al sentimento individuale, come la violenza: del rifiuto ad ascoltare delle richieste legittime; del far sentire il peso di una decisione in realtà obbligata (la mia di andare via) come se fosse una mia mancanza; del non fare una carezza ad una persona in quel momento visibilmente in difficoltà.
 Gli ho riferito solo un po’ delle cose già dette al prete, gli ho chiesto spiegazioni più chiare e l’ho pregato di non lasciare perpetuare questa modalità.
 S mi ha detto che anche lui era stupito (e lo era), mi ha ripetuto più volte che ieri non era assolutamente così, di chiedere conferma ad A, che non sapeva il perché non stessero usando le precauzioni, che vedeva il prete un po’ esaurito ma più tardi avrebbe cercato di parlargli per convincerlo.
Ha detto che mi chiamerà oggi.

Entrata in macchina, ho sfruttato i 18 chilometri in auto per piangere tutte le lacrime trattenute davanti al prete.
Rientrata a casa.
Dopo questo, sappiate, non vedevo l’ora.


lunedi 23 marzo

ecco, intanto lunedì. lunedì ma comunque con un ritmo che avevo preparato da prima di questa situazione di segregazione forzata. si perché non voglio dare il nome a questo momento confondendolo con il nome di un virus, no, il momento assurdo è la segregazione forzata. è un altoparlante che da sopra una macchina passa sotto casa a dirmi di stare dentro, sono uomini in divisa che creano disagio più che mai, sono vicini di casa che se non stai attento ti sbirrano. una reclusione forzata che è un incubo costante. eppure. eppure già da prima avevo deciso che la mattina avrei fatto esercizio, eppure già da prima sapevo che sarei stata più tempo a casa per portare a compimento quei lavori che “adesso li faccio”. eppure.
eppure mi sveglio pensando “ok, è lunedì, tot ore per lo studio, tot per il disegno, alle 19.30 c’è assemblea”. eppure.
eppure di incontri veri, intensi e sentiti quanti ne facevo anche prima? in fondo se era vero sarebbe sopravvissuto anche al distacco… oppure… eppure… eppure mi sale una vertigine tremenda ad ogni attimo di consapevolezza o presunta consapevolezza di questa situazione. non sento l’impulso di uscire. non mi piace quel mondo che sta lì fuori. è un mondo spaventato e guardone. è un mondo dove non è stata abolita la felicità, le risate. io non voglio stare su un balcone, non sono eufelia!!! io rido e grido e salto e cammino, io vivo zappo mangio e piango. io parlo ad alta voce, corro sotto la pioggia saluto lo sconosciuto per strada. io qui non ci sono… e quando provo ad esserci rischio di finire in questura.
vabbè… è solo lunedì. torno a studiare che sto cazzeggiando già da un po’.

Napoli, fine marzo ‘20

Vivo da solo in una casa in cui smart-lavoro pure, ma sto mese di coronavirus non mi fa sentire solitudine.

Ho provato molta più solitudine i giorni in cui avevo tanta smania, sole fulgido fuori e vita pure fulgida dentro, ma nessuno con cui andare, molti già andati o andanti, nessuno che si ricordava, si è ricordato o si ricorda di me.

Ora non puoi uscire, la mattina ti godi gli uccellini inauditi, e lungo il giorno assapori lentamente le prospettive in repentini sguardi passanti, che ti fermano.

Sono giorni di grande potenzialità, un regalo finalmente, ma ne approfitti comunque sempre solo una minima parte. Gli arretrati di idee restano sempre abbondantemente maggioritari, anche perché ai vecchi se ne aggiungono di nuovi.

Ma ti senti un po’ più tu, sebbene con una sensazione di inettitudine all’uscire.

Ma forse non sono rappresentativo dell’universo là fuori, anzi là dentro, ognuno nelle sue case.

Non lo sono perché gli altri forse si sentono effettivamente soli, meno abituati al non continuamente cumulato: stavolta addirittura mi contattano per sapere come va. 
Io, trovo pure finalmente l’attivismo e il coraggio che aspettavo da una vita, e chiedo a mia mamma la ricetta del panettone.

In sequenza,

3 uova
150 zucchero le prime due cose da mescolare
300 farina
100 burro da sciogliere lento e poi mettere in impasto alternato a farina
mezzo bicchiere di latte
1 bustina pan degli angeli e altro mezzo bicchiere di latte in cui scioglierla, per poi unire
scorza di limone grattugiata

Prima di tutto però, imburrare teglia e poi metterci farina
Senza lievitare, 160° mezz’ora nel forno uguale al suo, e magari torno bambino.

mercoledì 1 aprile

Stanotte ho sognato che tutto il mondo si era trasferito sulla terrazza di un palazzo di un quartiere popolare. Come la sanità ma vista molto dall’alto. La strada giù era completamente vuota e incredibilmente silenziosa. Questo mondo era la fusione di diversi mondi, che coesistevano. C’erano i bambini, scugnizzi, che giocavano a calcio. La loro vitalità invadente, con il pallone che minacciava sempre di colpirti, era comunque un sollievo, perchè dopo tanti giorni obbligati a stare chiusi in casa, finalmente avevano lo spazio per giocare. Allora tutti glielo lasciavano fare.

C’erano anche signore con grembiuli e mani grezze da lavoratrici che chiacchieravano, uomini a fare comunella e ridacchiare, e c’ero io, preoccupata. Cercavo di mettere tutti e tutte in allarme, dicevo loro che quel palazzo non poteva reggere tutta quella gente, perché collaudato per accogliere solo 200 persone. Ma loro non mi ascoltavano, mi dicevano di stare tranquilla sminuendo i miei avvertimenti e la mia paura. Eppure io guardavo il pavimento e vedevo delle crepe che piano piano si dilatavano.

Questo mondo tutto su un palazzo mi fa pensare all’eden, dove tutte e tutti potevano essere liberi di fare ciò che volevano avendo a disposizione il proprio piccolo spazio sereno da cui non uscire. Ma era una beata ignoranza quello stare lì in pace. Solo io, nella solitudine, vedevo lo scheletro marcio, e le crepe, e il futuro crollo.

 


Napoli, inizio aprile ‘20

Aprile è stato per me sempre il mese dell’erba che sponta da sotto a le chianche, irrefrenabile. Aprile è la vita, e mica solo perché a me ha dato la vita. La segna per tutto il mondo, la fa verde vivo, la vita. È un verde esplosivo, di un solo mese, non dura di più. Il verde di maggio già si avvierà verso il giallo di giugno. Mi ricordo la prima volta che lo vidi, era un campo di grano dalla terrazza della casa di mare di Pasqua dei miei. Fu come la prima volta che vidi la potenza della luna piena cadermi addosso, ravvicinata nella campagna della notte del terremoto: un subbuglio, un’inquietudine, e un’impressione indelebile.

Oggi ci tolgono un aprile. È forse il delitto più grave costringere ai sepolcri quando anche Nostro Signore è un’erba che sponta dalle chianche, irrefrenabile, sto mese. Mi dà la sensazione di un’occasione persa, di un anno che aspetta solo aprile e poi aprile salta e dovrai passare, e sprecare, un altro anno prima che aprile torni. Aprile quest’anno lo guardi dal balcone al parco di fronte, o al mare che cambia da gelido e terso a celeste e morbido, per me che sono a Napoli fortunato. Ma non sento che mi stanno togliendo la libertà. Non sento che sto solo. Scelgo di uscire pure meno del lecito, prendendo per isteria metropolitana questa corsa a uscire (forse da case e compagnie angustiose), e se esco non c’è nessuno. Non sento coercizione e non sento solitudine. Sento che ci stanno togliendo un pezzo di vita in cui ancora una volta speravamo. Forse ancora una volta ci avrebbe deluso, e non vi avremmo trovato quello che cerchiamo, che poi che cerchiamo. Ma qualsiasi cosa stessimo cercando, Corona&Co ci hanno tolto la possibilità di trovarlo, una volta in più. La vita si consuma e noi rimandiamo, come abbiamo rimandato cento e mille volte, in cento e mille volte di solitudine vera, quella in cui veramente speravi uscire, compagnia, vita fuori perché la vita ti pulsava dentro, volevi essere filo d’erba che spingeva sotto alla chianca in un terreno fertile insieme a tanti altri fili d’erba anch’essi a spingere. Il cuore dentro a un filo d’erba. E sebbene la vita fuori ci fosse, la vita ti lasciava dentro a languire.

Ecco, almeno stavolta ci hanno tolto la velleità, e l’impossibilità rende meno solitudine questo isolamento. Solitudine non può essere quando nessuno può venirti a trovare o a chiamare. Solitudine è quando potrebbero, e tu inviti, ma nessuno lo fa e nessuno accetta. Quando vorresti vivere insieme in una marmellata ma poi devi capire sui denti che ognuno vive il suo barattolo, qualcuno collettivo, ma il tuo resta pieno solamente di te. Solitudine è quando si potrebbe andare a vivere insieme il momento in cui il filo d’erba sponta da sotto alla chianca janca, ma nessuno lo fa con te. E tu resti in casa, mutilato di un sole fresco di aprile, ma in vero inchiodato a sperare di più.


da qualche parte ad aprile

Qualche amico senza mezzi termini mi confida: “Salvatore, credo che questa volta ci sono riusciti, ce l’hanno messo in culo”. Sono disorientato e inizio a sudare. La tristezza mi avvolge e non oso minimamente immaginare una via d’uscita. Ritorno a casa con un magone che quasi non mi lascia respirare. Sono solo, mi verso un trago di rum e accendo una sigaretta. Esco fuori il patio e simulo il cinguettio degli uccelli, l’ho imparato da bambino ancor prima di saper fischiettare. Sono centinaia gli uccelli annidati sull’enorme albero di mango e c’è sempre qualcuno che puntualmente mi risponde. Mentre accarezzo un mango che vedo crescere a vista d’occhio, sorrido all’idea che a rispondermi potrebbe essere uno degli uccellini che ogni mattina viene a mangiare le briciole di pane e i chicchi di riso che lascio sul tavolo.

Napoli, già verso fine aprile ‘20

Fin dal primo minuto, non ho sopportato né l’ansia né la retorica del dopo – qualcuno anticipando interrogativi, altri prefigurando euforia.

Ma cosa vi aspettate che ci sia là fuori?
Cosa vi aspettate che ci sia là fuori a accoglierci?
Perché dovrebbe essere un mondo dove, se sentivamo solitudine a gennaio, ci abbracceremo anche un solo giorno a maggio?
Ok, forse per un solo giorno accadrà, e allora?

Sta per terminare il tempo della scusa con cui c’era chi si voleva illudere: “Siamo soli perché tutti isolati.

La solitudine non è materia di un isolamento collettivo. La solitudine può accadere solo quando si è liberi. Questo tempo di restrizioni ci ha ridotto ad atomi che fanno quello che possono per stare collegati al resto con gli strumenti che si trovano in dotazione. Ma è stato un tempo-regalo per ripensarsi, per sentire briglie sciolte, per esplorarsi un po’ di nuovo, per ricollegarsi a se stessi in nuovi desideri al sapore di aspirazioni permanenti.

Certo, non è stato un tempo in cui abbiamo raccolto tutto il frutto promesso da quegli slanci che a volte ci saettavano. È stato anche un tempo che ci ha appiattito, un tempo in più – e nuovo – fra quelli mal’approfittati della nostra vita. È che l’incertezza su quando ogni nostra possibile attività avrebbe potuto acquisire un senso esterno, oltre a quello immanente, metteva un masso fra l’impulso (il desiderio) e l’azione per compierlo, fosse pure un tassello di costruzione il compierlo ora tra quattro mura. Facevamo meno dei nostri propositi, e meno del possibile, come fossimo trattenuti dall’inerzia millenarista di un malato terminale, temperata però da una convinzione imprecisa e incerta di un giorno farcela a guarire, a tornare a uscire alla vita.

Cosa saremo dopo? Saremo capaci di portare avanti, per noi e per gli altri, una frazione di tutti questi spunti di miglioramento che abbiamo covato in questo tempo di smarrimento e regalo?

Io non so cosa sarà dopo, dopo è un domani abbastanza uguale a ogni altro domani.
Ma poco mi interessa cosa sarò dopo.
So che cosa era prima, e che io ho perso un’altra ricerca di consolo di un aprile.


3 Maggio 2020

Ragazzi ho fatto questo sogno:

Puntata 1: 

Io e Angela avevamo appena finito il turno alla mensa a piazza M e senza mascherina abbiamo detto “passiamo all’Asilo ja”. Arrivate davanti il cancello dell’Asilo vediamo le guardie arrivare sul furgoncino che porta la munnezza. Ci vedono. Si fermano. Angela scappa al portone di legno si traveste da carabiniere in 0.2 secondi e entra. Io chiudo il cancello di ferro per non far entrare le guardie e inizio a camminare velocemente verso il portone. Le guardie che erano già scese dal furgoncino si fermano al cancello principale e iniziano a fotografarmi mentre scappo, in modo tale che se mi avessero trovata mi avrebbero riconosciuta.

All’asilo io e Angela troviamo Luca che stava lavorando in armeria. Gli raccontiamo velocemente il fatto e andiamo a nasconderci. Bussano le guardie. Io cerco un luogo improponibile in cui nessun essere umano potrebbe infilarsi e mi nascondo in un cunicolo buio minuscolo. Mi sento al sicuro ma non si può mai sapere… mi batte forte il cuore. Luca parla con le guardie al citofono, le fa salire perché non potrebbe fare altrimenti. Arrivano. Sento la loro voce molto vicina ma tutto ok. Vanno via. Io e Angela usciamo. Non ricordo il seguito ma abbiamo paura di uscire dall’Asilo. Abbiamo paura che le guardie siano fuori ad aspettarci.

Stesso sogno. Puntata numero 2 

Tutti noi dell’Asilo stavamo mangiando in un pub, piccolo. Eravamo noi più altra gente. Era tardo pomeriggio. Ancora c’era il sole.  Io con la supervisione di Cecè faccio alcune simulazioni di fuga perché sono sempre la ricercata fotografata della Puntata 1. Insomma, vedo che dietro il pub c’era un orto, un recito, scavalco, entro in un residence e cerco la stanza senza clienti, sempre quella più buia che avesse un posto piccolo e improponibile in cui nessun essere umano potrebbe infilarsi per nascondermi. Trovato il nascondiglio scendo di nuovo e vengo con Cecè al pub da voi. Iniziamo a mangiare. Il pub è piccolo e c’è tanta gente. È sera. Arrivano le guardie. Io scappo: orto, recinto, residence, stanza buia, botola. A tutti quelli nel pub le guardie fanno la multa perché eravate senza mascherina. Io appena sento le sirene della volante che si allontanano esco e vi raggiungo.

Prendiamo le nostre biciclette e tutti in massa iniziamo a camminare. Gli stronzi passano di nuovo, abbassano il finestrino, camminano a passo d’uomo e guardandoci dicono “Eccoli, voi siete quelli della multa, tornate a casa, tornate”. Io vi guardo e poi penso “Cazzo, non dovevo guardarli altrimenti capiscono che sono quella nelle foto della Puntata 1 e sono scappata dal pub per non farmi prendere”. Riconosco il guardio che mi aveva beccata, lui mi guarda e io faccio finta di niente. Ho capito che aveva capito. Ma io…comunque faccio finta di niente e lui dice “Va bene va bene andiamo, la multa gliel’abbiamo fatta, andiamo va’”.

Loro vanno via e noi continuiamo a camminare con le nostre biciclette alla mano. Uniti compatti.

Maronna uagliù. Sta città utopica che stiamo programmando verit c’suonn mi fa fa!

Buonanotte. Vi racconterò domani se ci sarà una puntata 3!

sempre 3 maggio

All’inizio della quarantena, dopo la proposta dei pizzini e la conseguente riflessione su possibili-ma poi impossibili- azioni in strada, anche io ho sognai l’asilo.

L’edificio era una fortezza. Arroccato su un’altura, come il castel sant’elmo. Era di caldo tufo giallo, come castel dell’ovo. Vuoto, silenzioso e lontano, come la fortezza bastiani del deserto dei tartari. In attesa. Proprio così, uguale.

Noi guardavamo l’irraggiungibile fortezza dal basso, su uno slargo di un belvedere. Non era tanto lontana da noi, ne distinguevamo perfettamente la faccia sola, eppure non potevamo avvicinarci. Allora da lì iniziavamo la nostra azione in strada: dipingere tutte le vetrate del belvedere con simboli, disegni, messaggi. Era l’unica cosa possibile per esserci.