Pignon-Ernest al Grenoble e all’Asilo Filangieri

di Napoli Monitor

Su Napoli Monitor http://napolimonitor.it/2014/03/03/24931/pignon-ernest-al-grenoble-e-allasilo-filangieri.html

In occasione del venticinquesimo anniversario del primo intervento di Ernest Pignon-Ernest nei vicoli napoletani, l’artista francese sarà a Napoli per alcune manifestazioni celebrative del suo lavoro. Durante il primo incontro (mercoledì 5 marzo – ore 10,30) Pignon-Ernest sarà ospite degli studenti dell’accademia di Belle Arti. Giovedì 6 (ore 18,30), in occasione dell’inaugurazione della mostra di Alain Volut dedicata alla sua opera e della proiezione del film La pasqua secondo Ernest Pignon-Ernest (aa.vv., 30′), Pignon-Ernest sarà al Grenoble (via Crispi, 86) per un dibattito sul suo lavoro. 

Venerdì 7, dalle ore 19,00 all’ex Asilo Filangieri (vico Giuseppe Maffei, 4): dibattito pubblico in presenza dell’artista, proiezioni di alcuni spezzoni di Naples revisitée par Ernest Pignon-Ernest (P.Chaput e L.Drummond, 1988) e del film La pasqua secondo Ernest Pignon-Ernest.

Di seguito una intervista del 2010 all’artista a cura di cyop&kaf e Andrea Bottalico.

Abbiamo intervistato Ernest Pignon Ernest, finalmente. Quanto segue nasce prima di tutto da una curiosità, dalla voglia di confrontarsi con chi, prima di noi, ha vissuto la città come un’atelier diffuso. Lo ringraziamo, prima di tutto, di aver gettato un seme nella nostra città, ma anche della passione e dell’entusiasmo dimostrato nel raccontarsi.

Prima di avere un contatto con il writing, quello d’importazione americana, per noi l’arte pubblica erano quei suoi corpi lacerati appiccicati al piperno. Forse, non tanto per la loro indubbia qualità pittorica, ma per il potenziale che il medium in sé esprimeva: la possibilità di dare a chiunque il proprio lavoro, distribuire la propria passione, scavalcando burocrazie, mercati e tutto quello che  rende repellente molta dell’arte dei giorni nostri e i suoi perversi meccanismi. Solo poi sono arrivati i natali del Plebiscito, le stazioni dell’arte e i presunti rinascimenti.
Pignon è stato a Napoli a più riprese tra l’88 e il ’95. Parlare con lui ci dice molto anche su come è cambiato il tessuto sociale della città.

Come le è saltato in mente di venire a Napoli?
Un lavoro precedente mi fece considerare che ignoravo ciò che riguarda le culture che affrontano certe questioni fondamentali, dai grandi miti fondatori fino alla religione stessa. Non conoscevo niente di tutto questo e trovavo che fosse una mancanza, anche perché con le immagini che creo c’è sempre una specie di rappresentazione degli uomini legata all’archetipo. Lavoravo piuttosto su questioni che avevano un carattere politico o sociale. Mi dicevo che avrei dovuto nutrirmi di quello che caratterizza la mia cultura (sono originario di Nizza).
In un primo momento pensai di andare in Grecia, con l’idea d’interrogare le radici della cultura mediterranea, poiché credevo che fosse in quei luoghi il focolaio, l’origine, ma poi il caso mi portò a Napoli. Ascoltai della musica popolare napoletana alla radio, e immaginai questa città, pensai che sarebbe stato interessante conoscerla. Dopodiché ho preso l’aereo e sono venuto. Era il 1987, credo.

Quale fu l’impatto con la città?
Nel periodo in cui ci ho lavorato mi sono completamente fuso al suo interno. Appena arrivato telefonai alla mia compagna e le dissi che forse ero capitato in un giorno particolare, che probabilmente doveva esserci uno sciopero generale o un problema del genere, perché c’era un bordello incredibile dappertutto, un tumulto, una circolazione impossibile. Dopo qualche giorno mi resi conto che questa effervescenza e questo disordine erano quotidiani. Erano la norma.

Come nascono le sue opere?
I miei disegni nascono dal mio approccio ai luoghi. Non si tratta di disegni esposti per strada. Sono disegni che quando metto in relazione con un luogo, devono in qualche modo riattivare, esacerbare il potenziale suggestivo, interagendo con la forza del luogo stesso. Devo precisare che le mie opere non sono i miei disegni. Per esempio, il disegno dello spiraglio (Le soupirail), da cui usciva un corpo, è ispirato a un quadro di Luca Giordano. L’ho incollato nel periodo di Pasqua. Cerco di tenere conto dei luoghi ma anche del momento. Incontrare un’immagine della morte nel contesto di Pasqua, influenza la percezione dell’immagine. Lo incollai vicino piazza San Domenico Maggiore, sul palazzo San Severo. Mettendo un’immagine in questo luogo, si crea un’interazione, la mia immagine diventa più forte, più drammatica, carica di senso, perché è in “quel” luogo riattivato dalla presenza di “quella” immagine. Dunque, se possiamo parlare di opera riguardo a un mio lavoro, l’opera è tanto il luogo, la scelta del luogo, quanto il disegno e il momento in sé. Si tratta di un’osmosi con la città.
Ho messo un po’ di tempo a scoprire che dovevo nutrire le mie immagini di un dialogo con l’opera di Caravaggio, perché trovavo una familiarità tra Napoli e la sua pittura. Una prossimità anche fisica. Napoli è molto assolata, e al contempo con quelle stradine così strette, così oscure… C’è questo dialogo tra le tenebre e la luce. Il che fa pensare al Caravaggio. Molti scrittori hanno parlato di Napoli come di un corpo umano pieno di sensualità. Anche la sensualità che secerne questa città, almeno quella che io sentivo, mi ha dato l’idea di dialogare con Caravaggio.

Quali relazioni si sono create con gli abitanti del centro storico?
Molti incontri sono avvenuti di notte, mentre incollavo i disegni. Ricordo che una notte c’era un tipo che girava in vespa per cercarmi. Io stavo incollando un disegno in un vicolo del centro. Questo tizio finalmente mi trova, scende dalla vespa, mi prende per le spalle e dice: «Ti amo, ti amo!». Allora gli chiedo: «E tu chi sei?». E lui risponde «Gaetano, il proprietario del bar Mattone». Il giorno dopo andai nel suo caffè a parlargli del mio lavoro. In quel bar c’era molta gente, tra cui ricordo uno che mi disse: «Tu ci crei dei problemi, perché le tue immagini sembrano uscire dai muri, e uscendo dai muri fanno uscire la nostra storia». Ma ho avuto altri incontri assolutamente incredibili… In Francia quando incollo dei disegni non ci sono gravi problemi ma può capitare che ti fermi la polizia. A Napoli una notte stavo incollando una serigrafia enorme, quella di un tipo che porta un uomo sulla schiena (Epidemie), un riferimento alla peste, e avevo tutto il materiale con me. I poliziotti mi fermarono e vedendomi carico mi dissero: «Lasciate a noi la scala, ve la guardiamo e quando ne avete bisogno ve la portiamo noi».
Poi una notte c’erano due tipi che tornavano da una rapina, avevano svaligiato un magazzino e correvano. Io stavo incollando un disegno, loro non appena mi videro si fermarono e mi dissero «Ma allora sei tu che fai questo? Tutti si domandano chi li incolla questi disegni per la città!».
C’erano due donne che vendevano stracci e sigarette per strada, verso San Biagio dei librai. Queste signore stavano là tutti i giorni. Avevo incollato una citazione della “Morte della vergine” di Caravaggio proprio vicino alle loro bancarelle, pensando che le donne avrebbero potuto rappresentare il ruolo della veglia raffigurata nel quadro. In questo dipinto, nel primo piano, c’è un elemento che costituisce il passaggio, plasticamente, tra lo spazio esteriore e lo spazio del quadro. C’è sempre un passaggio del genere nella pittura di Caravaggio, come nella “Deposizione di Cristo”, in cui la lastra della tomba sembra uscire dal dipinto. Nella “Morte della Vergine” al primo piano c’è la Maddalena seduta su una sedia che crea questo tipo di passaggio. Ovviamente quando incollo i disegni sui muri non posso mettere più personaggi, perché questo rende lo spazio troppo profondo e non funziona sul piano del disegno. Le due donne avrebbero potuto giocare questo ruolo, plasticamente. Quindi avevo incollato quel disegno vicino alle signore con le bancarelle. Era un crocevia… Quando sono tornato, due anni dopo questo collage, volevo portare la foto a quelle donne, e un amico mi aveva detto che Antonietta, una delle due, era morta. Nella stessa notte con quella foto disegnai il ritratto di lei e andai a incollarlo nel luogo in cui stava con la bancarella da almeno quarant’anni. Quello fu un momento incredibile con la gente del quartiere. C’era una sua amica, l’altra donna anziana che si vede sulla foto, che era molto turbata. Il fatto di averla disegnata aveva un lato un po’ magico per lei. Il giorno seguente lo stesso amico mi aveva detto che gli abitanti avevano pensato di mettere un vetro sul disegno. Io avrei dovuto lasciarli fare, ma non era veramente quello il mio principio. Dissi che era meglio di no. Dissi che se il disegno si fosse rovinato, piuttosto sarei ritornato a farlo nuovamente, cosa che feci due o tre anni dopo. (continua a leggere)