Il diritto di occupare i luoghi inutilizzati

di Ugo Marani

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CAPITA talvolta che il potere e il successo arrechino forme di comprensione e di tolleranza inaspettate. È accaduto per quei movimenti che, da qualche tempo, contestano la finanziarizzazione esasperata dell’ economia, le modalità di risoluzione della crisi, la precarietà dell’ universo giovanile, l’assenza di spazi di riflessione collettiva. Tra i primi Mario Draghi, quando era in procinto di presiedere la Banca centrale europea, un’istituzione che della globalizzazione e dei sacrifici diffusi ha tracciato la rotta in Europa. Poi è toccato a George Soros, il finanziere, che, almeno dalla crisi della lira del 1992, domina il mercato degli hedge funds, esprimere comprensione verso quel movimento, Occupy Wall Street, che contesta l’ iniqua distribuzione della ricchezza a favore dei banchieri statunitensi. Un po’ di solidarietà non si nega mai, specie se costa poco e se non mette in discussione la propria storia e la continuità sociale.

Ma, capirà il lettore avvertito, a poco essa serve, specie se le istituzioni pubbliche fanno orecchie di mercante agli interrogativi che questi movimenti sollevano. Miopi reazioni potrebbero rendere Napoli sorda a fenomeni che ha poco senso confinare nelle confortevoli categorie del ribellismo o, peggio, dell’eversione.

Il dato da cui partire, ci piaccia o no, è che in Italia, da almeno un triennio, crescono le forme di protesta sociale e cambiano i modi espressivi del disagio. Il Censis stima che nell’ultimo anno oltre un milione e mezzo di persone, giovani ma maggiorenni, abbia partecipato a manifestazioni di protesta o di disobbedienza civile, manifestazioni che «consentono di relativizzare il disagio individuale di chi subisce decisioni assunte molto lontano da lui e calate nel suo spazio vitale senza la mediazione di decisori nazionali e locali sempre più impotenti». Si tratta, com’è ovvio, di proteste molto diverse da luogo a luogo: le manifestazioni allo Zuccotti Park di New York sono diverse da quelle che caratterizzano la cattedrale di San Paolo a Londra, la Kurfürstendamm di Berlino o la Puerta del Sol di Madrid. Tutte quante, nondimeno, esprimono, in modo non sempre ortodosso, il diritto a intervenire sul proprio territorio per opporsi alla propria esclusione sociale. Nasce il diritto alla città come diritto allo spazio pubblico per sviluppare dialogo, stabilire relazioni; spesso, come afferma acutamente l’antropologo David Harvey, le aiuole hanno un loro luogo pubblico, le persone no.

Le realtà che oggi si manifestano a Napoli sono di tutto ciò portatrici; ma, forse, anche di qualcos’altro che della storia della città è erede. Napoli è probabilmente una delle poche grandi metropoli europee in cui il processo di deindustrializzazione degli anni Novanta non è stato compensato da un irrobustimento produttivo di diversa connotazione che si facesse carico delle tensioni sociali e territoriali derivante dalla scomparsa dell’ impresa. Da noi non è apparso ciò che in alcune grandi città, Barcellona, Dresda, Lipsia o Londra, ha sostituito, spesso discutibilmente, l’industria. E a questo punto, non vale nemmeno la pena di rinvangare un ventennio di ritardi: così è.

A farci compagnia si può annoverare solo la conurbazione urbana di Glasgow che nulla ha sostituito all’obsoleta manifattura scozzese. Napoli, come nell’ esperienza scozzese, esalta la sua potenzialità di disvalori giovanili e di apolitica eversione più nel ricorrente impossessamento notturno del centro storico da parte di una movida violenta e incolta; ma la città, per fortuna, propone anche qualcos’altro che sarebbe delittuoso, per mero pregiudizio, ignorare.

Napoli esalta, più che altrove, l’esistenza della crisi in dimensioni fisiche, in luoghi oramai desertificati e abbandonati, di fatto esclusi alla fruizione pubblica ma, non per questo, integrati nel business privato. Si tratta di enclave, piccoli bar, asili abbandonati, vecchie filiali bancarie in disuso, che salgono agli onori della cronaca, non già per il loro trascurato degrado comatoso, quanto perché qualche movimento giovanile ha deciso di “utilizzarli”, convinto che lo stato d’abbandono del sito costituisca un diritto sociale più fondato del diritto di proprietà. Capita così che, di recente, si siano moltiplicate le iniziative di protesta “costruttiva”, e cioè l’occupazione di fatto di luoghi il cui solo impiego era l’inutilizzazione. Il D. A. D. A. all’Università Federico II, il collettivo Bancarotta nello spazio della Bagnolifutura, lo Zero81 nell’ ex mensa dell’ Università Orientale, l’Asilo 45 di Boscoreale, la Balena all’ex asilo Filangieri sono realtà che forse faranno arricciare il naso a chi ragiona solo in termini di norme, ma costituiscono ismi legittimati dalla crisi e dall’abbandono delle tematiche giovanili. E meritano tolleranza ben più di quanto avvenga verso la movida. Se ne ricordi chi, a mo’ di novello Azzeccagarbugli, brigasse per cancellarle.