Fin dall’inizio siamo stati consapevoli che liberare uno spazio come quello dell’ex Asilo Filangieri – ora Asilo della Conoscenza e della Creatività – sede dell’ormai morente Forum delle culture, era un preciso atto di rivolta contro una pluriennale gestione clientelare dei fondi e delle risorse pubbliche in materia di arte e cultura a Napoli e in Campania.

Liberare un luogo perpetuamente chiuso, renderlo definitivamente fruibile alla città, immaginarlo come uno spazio di produzione e creazione aperto e indipendente è un chiaro atto di rivolta contro l’arbitrio dei diversi prìncipi e sovrani che, in questi spazi, hanno costruito il loro bacino di clientele.

La rottura si è consumata, dunque, a partire da un rifiuto collettivo che reca in sé un germe propriamente costituente.

Questo rifiuto corre su un doppio binario: ci collochiamo al di fuori e contro l’elegia del mercato, del profitto e della contestuale mercificazione di beni essenziali e fondamentali per lo sviluppo delle nostre comunità – a mero titolo di esempio: l’arte e la cultura.

Tuttavia, parimenti riteniamo che l’amministrazione pubblica delle risorse in materia di arte e cultura, in questi anni, a causa dell’atrofia del sistema partitico – trasversale –, abbia favorito soltanto lobby e clientele.

Nella frattura aperta dal congiunto rifiuto delle privatizzazioni e delle burocrazie pubbliche si apre, dunque, lo spazio costituente: a partire dal processo politico radicalmente democratico, aperto, plurale, nato con la liberazione dell’Asilo, una comunità si afferma e afferma la sua parola politica; afferma il suo diritto, costituzionale e repubblicano, di decidere sulle risorse comuni in quanto derivanti dalla tassazione di tutti i cittadini; afferma la sovranità nell’assemblea di tutti i cittadini posti in condizioni di uguaglianza, frutto della partecipazione e dell’agire condiviso. Afferma, infine, le sue istituzioni.

Quando, inoltre, riferendoci all’Asilo lo definiamo come un bene comune non intendiamo agganciarci futilmente ad una categoria spesso abusata (si pensi alla definizione che Enrico Letta ha dato del “Partito democratico come bene comune”) o poco chiara: l’Asilo è un bene comune in quanto, innanzitutto, non appartiene ad un determinato soggetto di diritto privato che può vantarne l’uso esclusivo ed escludente nei confronti di altri soggetti.

Al tempo stesso, è un bene comune in quanto la gestione e la nuda vita che ora anima questo spazio viene progressivamente sottratta alle mortifere logiche burocratiche e oligarchiche di un potere pubblico – arbitrario – ugualmente escludente nei confronti di tutti i cittadini.

Immaginare questo spazio come il nostro bene comune implica porlo al centro di una rete di relazioni che, fondandosi ontologicamente e completamente sulla partecipazione orizzontale di tutte e tutti alla gestione di questo stesso spazio, lo libera e lo restituisce ad una città intera: soltanto ora l’Asilo è nella città.

L’Asilo dunque è, ad un tempo, il risultato e la condizione in cui si dà giornalmente la vita di una comunità di precari, operatori culturali, artisti, lavoratori della conoscenza e dell’immateriale, lavoratori autonomi, studenti e accomunati dalla condizione di precarietà e di intermittenza e di tutti quei soggetti frammentati ed esclusi a vario titolo dai processi economici e dalla rappresentanza politico-sindacale: siamo il Quinto Stato (Allegri G., Ciccarelli R., 2011), forza costituente di una nuova res-pubblica basata su cooperazione, autonomia, indipendenza e sulla valorizzazione giuridica dei beni comuni, valorizzazione che nasce da un processo politico conflittuale e pertanto, lo ripetiamo, costituente.

Se, dunque, il neoliberismo, variante fondamentalista del comando capitalista, ha progressivamente imposto, culturalmente prima ed economicamente e politicamente poi, la prevalenza del mercato sulla vita, del profitto individuale sulle comunità e sulla cooperazione  -cresce lo spread tra paura e desiderio!-, insomma, se questo è lo stato di cose presenti noi, in comune, rispondiamo con Bartleby lo scrivano: preferiremmo di no.

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